Erdogan vuole bandire l'iPhone, ma due anni fa gli ha salvato la vita
Preso dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti, il presidente turco ha annunciato boicottaggi di prodotti tecnologici
Berlino. Morte all’iPhone, passiamo tutti al Samsung! Sono anni che il presidente turco Recepp Tayyip Erdogan ha abituato i suoi concittadini e la platea internazionale ai suoi modi assertivi. Uno degli ultimi strali lanciati dall’Ak Saray, il costosissimo “palazzo bianco” presidenziale di Ankara, prende di mira proprio Apple. C’erano una volta la Ford e la Coca-Cola. Oggi però è l’azienda di Cupertino a incarnare e rappresentare più di ogni altra il successo dell’economia americana nel mondo. E poiché Erdogan e Donald Trump sono commercialmente ai ferri corti, per il sultano puntare contro i telefonini con la mela è stato tutt’uno. Ankara non perdona a Trump il raddoppio dei dazi sui prodotti siderurgici turchi: la misura ha precipitato la già debole lira turca a dei minimi senza precedenti.
Ci sono tuttavia una serie di ragioni che dovrebbero spingere il rais a più miti consigli per uscire dalla crisi valutaria. La prima è di natura affettiva: nella notte fra il 15 e 16 luglio 2016, Erdogan subì un tentato golpe da parte dei seguaci del suo rivale, il predicatore Fathullah Gülen. Come ne uscì il presidente allora senza pieni poteri? Chiamando a raccolta i suoi sostenitori dal suo iPhone con una videochiamata Facetime rilanciata in tv: un’apoteosi hardware e software di Apple, che consentì al presidente di dire al mondo che era vivo e il tentativo dei golpisti di ucciderlo era fallito. Erdogan dovrebbe fare poi tesoro dell’esperienza altrui e sapere che questi boicottaggi ad aziendam non funzionano: nel 2016 anche Trump chiese di boicottare Apple che non voleva decriptare l’iPhone 5C dell’attentatore della strage di San Bernardino; due anni e mezzo dopo, ossia un mese fa, l’azienda di Cupertino è stata valutata mille miliardi di dollari.
Esistono poi anche ragioni di sostanza: “Nell’economia odierna nessuno può sopravvivere senza forti partner commerciali: non la Cina, la Russia, l’America o la Turchia”, ricorda al Foglio l’economista turco Kerim Arin. Raggiunto telefonicamente ad Abu Dhabi, dove insegna Macroeconomia e teoria monetaria all’Università Zayed, il professor Arin ricorda che il commercio rafforza le parti che lo praticano. Di conseguenza “girare le spalle a una grande economia o a una [grande] azienda è dannoso”. Poco importa che il portavoce di Erdogan abbia detto ieri che le speculazioni contro la lira sono sotto controllo grazie all’annunciato mega investimento del Qatar in Turchia per 15 miliardi di dollari.
Arin concede che l’aiuto dell’emirato possa stabilizzare la moneta di Ankara: “Ma solo nel breve periodo, quando i tassi di cambio dipendono da domanda e offerta”. Ma il gioco sta cambiando perché gli Stati Uniti aumentano i tassi di interesse, “il che fa vendere lire turche, rupie, rubli, yuan e rand sudafricani per comprare dollari”. Le altre valute, però, si limitano a calare mentre la lira turca precipita “schiacciata dal peso combinato della politica dell’uomo forte, del deficit nazionale e dell’indebitamento delle imprese private, specialmente nel settore edile”. Agli occhi degli investitori, in altre parole, la Turchia appare ogni giorno un po’ più rischiosa.
In Turchia si continua a stampare carta moneta per tenere bassi i tassi di interesse che Erdogan ha definito “il padre e la madre di tutti i mali”. L’inflazione, però, corre esponendo la valuta nazionale alla pressione di lungo termine del dollaro e dell’euro. Nel breve termine la Turchia dovrebbe rialzare i tassi di interesse detestati da Erdogan, dice Arin. “E nel lungo migliorare la qualità istituzionale della sua economia: il che significa non solo indipendenza della banca centrale ma anche rispetto dello stato diritto e maggiore stabilità politica: il mio paese non è mai stato così polarizzato”.