“Uccidere Rushdie è ancora valido”, dice il ministro dell'Iran ospite al Salone del libro di Torino
Salehi confermò la condanna a morte dello scrittore e boicottò la Fiera del libro di Francoforte per averlo ospitato. Tutto ok, Lagioia e Bray?
Roma. A maggio Massimo Bray, già ministro della Cultura del governo Letta e da due anni presidente del Salone del libro di Torino, era volato a Teheran per incontrare il ministro iraniano della Cultura e guida islamica, Abbas Salehi, nell’ambito della Fiera del libro della Repubblica islamica. La scorsa settimana la Stampa ha annunciato che la Fiera del Libro, diretta dallo scrittore Nicola Lagioia, ha scelto l’Iran come ospite d’onore dell’edizione del 2020. Il curriculum di Salehi dovrebbe indurre Bray e Lagioia a rivedere la propria decisione.
Nel 2016, gli ayatollah iraniani stanziarono altri 600 mila dollari per la fatwa con cui l’ayatollah Khomeini nel 1989 condannò a morte lo scrittore Salman Rushdie, l’autore dei “Versetti satanici”, portando così la taglia a 3,4 milioni di dollari. Parlando con l’agenzia di stampa del regime Fars, l’allora viceministro della Cultura Salehi disse che “la fatwa dell’imam Khomeini è un decreto religioso, non perderà mai il suo potere né si abrogherà mai”. Da Salehi arrivò la conferma della condanna a morte dello scrittore che vive ancora sotto protezione. Un decreto che avrebbe influenzato anche i fratelli Kouachi nella loro decisione di massacrare la redazione parigina di Charlie Hebdo (la fatwa iraniana fu trovata nel laptop dei due islamisti francesi). In quel terribile San Valentino del 1989, la condanna di Rushdie non costituiva soltanto l’ordine di distruggere un libro, ma anche il diritto alla vita del suo autore. Non c’era esilio in cui Rushdie potesse rifugiarsi.
Nel 2015 toccò sempre a Salehi annunciare la decisione del regime iraniano di boicottare la Fiera del libro di Francoforte, “rea” di aver ospitato proprio Rushdie. “Questo è stato organizzato dalla Fiera del libro di Francoforte e varca una delle linee rosse del nostro sistema politico” disse Salehi. “Rushdie ha insultato la nostra fede. La fatwa dell’imam Khomeini riflette la nostra religione e non svanirà mai”. Abbastanza chiaro. Se non bastasse, Salehi è stato il direttore della Fiera internazionale del libro di Teheran, dove numerosi libri sono stati confiscati dal regime nelle passate edizioni. Non solo, ma nel 2013 Salehi, allora in qualità di direttore della Fiera del libro, accompagnò il presidente Hassan Rohani all’inaugurazione. Negli stand del regime si esponevano i grandi classici dell’antisemitismo, come i “Protocolli degli anziani savi di Sion”. Salehi avrebbe anche portato i “Protocolli” nello stand iraniano della Fiera del libro di Francoforte.
Il mondo editoriale non spiccò certo per il proprio coraggio fin dall’inizio della fatwa Rushdie. La casa editrice francese Christian Bourgois rifiutò di pubblicarlo, come l’editore tedesco Kiepenheuer. L’editore greco rinviò la pubblicazione “a data da definirsi”. In Olanda, Veen annunciò che si sarebbe consultato con il governo e le organizzazioni musulmane. Negli Stati Uniti molte librerie, come Walden Books, tennero per settimane il libro sotto il bancone, quasi fosse maledetto. La Oxford University Press decise di partecipare alla Fiera del libro di Teheran assieme a due case editrici americane, McGraw-Hill e John Wiley, nonostante la richiesta di Viking Penguin, editore di Rushdie, di boicottare gli iraniani.
“Se non riusciamo a essere fermi su questo tema, è perché la nostra benedetta libertà di parola non vale uno spillo” disse all’epoca il romanziere John Updike. Vista Da Torino, che nel 2020 stenderà tappeti rossi agli esecutori della fatwa contro Rushdie, quella benedetta libertà di parola oggi sembra valere davvero molto poco.