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Il problema con il carcere di Trump è un maxisciopero dei detenuti

Ermes Antonucci

Tre settimane di proteste negli Stati Uniti contro sovraffollamento, lavoro sottopagato, violenze e difficili condizioni di vita

Roma. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non ha solo problemi con la giustizia, ma anche col carcere. Non il suo, ma dell’intera nazione. Da martedì scorso, infatti, è in corso ciò che viene considerato il più grande sciopero dei detenuti nella storia americana. Durerà quasi tre settimane, fino al 9 settembre, e coinvolgerà migliaia di detenuti sparsi nelle strutture penitenziarie di almeno 17 Stati. Protestano per le difficili condizioni di detenzione, le violenze negli istituti di pena, il sovraffollamento carcerario, il lavoro sottopagato: situazione che definiscono “una moderna forma di schiavitù”.

  

La manifestazione di dissenso, che si sta concretizzando nell’astensione dei detenuti dal lavoro assegnato in carcere, sit-in e scioperi della fame, è stata promossa dal collettivo Jailhouse Lawyers Speak (Jls) in risposta alla morte di sette prigionieri avvenuta durante una rivolta dello scorso aprile nel carcere della Carolina del Sud e che scosse l’intero paese. I detenuti hanno rilasciato un comunicato con la lista delle loro dieci richieste: da “l’immediato miglioramento delle condizioni di detenzione e la promozione di politiche che riconoscano l’umanità delle persone incarcerate”, al riconoscimento del diritto per ogni detenuto di essere pagato come ogni cittadino libero per il lavoro svolto durante la detenzione; dalla fine delle discriminazioni razziali all’interno dei penitenziari all’abolizione dell’istituto dell’ergastolo senza condizionale, considerato alla stregua di una “pena di morte”; fino ad arrivare all’istituzione di maggiori programmi di rieducazione per i condannati.

 

Il lavoro sottopagato è tra i temi centrali della protesta dei detenuti. La questione ha acquistato rilevanza nazionale soprattutto in occasione dei terribili incendi che a fine luglio hanno devastato la California (spingendo il presidente Trump a dichiarare lo stato d’emergenza), quando venne rivelato che molti dei volontari che stavano rischiando la propria vita per contrastare le fiamme erano detenuti provenienti dagli istituti penitenziari, che venivano pagati la miseria di un dollaro l’ora.

 

“I detenuti costituiscono una forza lavoro straordinariamente vulnerabile”, ha dichiarato alla Bbc David Fathi, direttore del Progetto carcerario nazionale dell’American Civil Liberties Union (Aclu). “I detenuti non sono protetti dalle leggi sulla salute e la sicurezza sul lavoro che proteggono tutti gli altri lavoratori: se si infortunano o rimangono uccisi sul posto di lavoro, nella maggior parte degli stati non è previsto alcun risarcimento. Tutto ciò crea una situazione in cui i controlli tradizionali sui possibili sfruttamenti e abusi da parte dei datori di lavoro semplicemente non avvengono”. Fathi ha anche raccontato che in California molti prigionieri sono rimasti uccisi mentre erano sul posto di lavoro, sottolineando quanto sia importante “assicurare che coloro che lavorano lo facciano volontariamente”.

 

Lo sciopero ha anche una forte valenza simbolica che rischia di alimentare nuovamente le tensioni razziali: è cominciato il 21 agosto, a 47 anni dall’uccisione dell’attivista per i diritti degli afroamericani George Jackson nella prigione di San Quentin, in California, e terminerà il 9 settembre, anniversario della rivolta di massa da parte dei detenuti che, sempre nel 1971, esplose nel carcere di Attica, proprio in seguito all’uccisione di Jackson, lasciando 39 vittime.

 

Riemerge attraverso la protesta, così, una delle più grandi contraddizioni della società americana, che detiene il record mondiale di persone incarcerate: circa 2,3 milioni, di cui oltre mezzo milione ancora in attesa di giudizio. Ne risulta il tasso di detenzione più alto al mondo: 716 persone detenute ogni 100.000 abitanti, quasi 5 volte il tasso registrato nei paesi del Consiglio d’Europa.

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