Uno strano sessantottino
Václav Benda, dimenticato eroe di Praga. Cattolico, ammirava la Thatcher e non voleva tregue con i comunisti
Schierarono ventimila soldati e duemila mezzi del Patto di Varsavia, un esercito proveniente da Bulgaria, Ungheria, Polonia e Unione sovietica. Fu così che Mosca riuscì a distruggere il vero e unico Sessantotto della libertà, quella “Primavera di Praga” di cui si sono celebrati i cinquant’anni. Una storia nota: Alexander Dubcek che viene torchiato, l’economia comunista più competitiva che viene arrestata, i carri armati che in piazza San Venceslao sono accolti dalla gente che impreca, gli studenti che cancellano i nomi delle strade per fuorviare la polizia segreta, le nozze del socialismo e della libertà che sono dichiarate nulle, Jan Palach che si dà fuoco, Milan Kundera che scompare nel suo esilio parigino, il filosofo Patocka che diventa una non-persona, Václav Havel che forma Charta 77. E il tradimento occidentale. Perché nessuno avrebbe rischiato un’altra guerra a causa di quel “popolo di cui non sappiamo nulla”, come Neville Chamberlain aveva definito la Cecoslovacchia alla sciagurata Conferenza di Monaco del 1938. Ma in questo anniversario nessuno ricorda il ruolo che ebbero alcuni intellettuali cattolici conservatori.
Benda fu costretto a quattro anni di carcere e a lavorare come fuochista. La moglie gli portava la comunione di nascosto in galera
Dopo il 1948, le autorità comuniste avevano cercato di imporre l’ateismo alla società. Dipingevano i sacerdoti come “fascisti” e si cooptò un gruppo di “nuovi cattolici” (giovani preti che sostenevano pubblicamente il socialismo) per contrastare i cattolici audaci e guardiani delle libertà religiose e civili. I vescovi furono internati, quasi la metà dei sacerdoti finì nelle prigioni e nei campi di lavoro (gli ordini religiosi e le congregazioni erano stati distrutti), tre sacerdoti (Jan Bula, Václav Drbola e František Pařil) furono giustiziati e un prete, Josef Toufar, venne picchiato a morte. Ma stava nascendo una “chiesa segreta”. Milan Beran fu ordinato in una chiesa buia, con due soli testimoni, dal vescovo Joseph Blahnik. E poi le suore che avevano conventi segreti nascosti in appartamenti dove istruivano le novizie.
Rimasero pochi intellettuali “irriducibili”. Ci fu un esilio interno, forse il più penoso, perché tacevano da anni voci un tempo libere e vive. Poi c’erano gli esuli “esterni”, come Kundera, e Pavel Kohut, tra i maggiori drammaturghi, esule a Vienna dal 1978, dopo aver subìto carcere, perquisizioni, aggressioni fisiche. O il critico letterario e studioso di Kafka Eduard Goldstucker, mentre Antonin Liehm, fra i principali animatori dell’organo degli scrittori Literarny Listy, fuggì in Francia.
Jiří Dienstbier e Václav Benda, incontro Charta 77. Foto di Ondřej Němec, Lidové noviny, via lidovky.cz
Oltre a Havel e al gruppo degli agnostici, gli intellettuali cattolici furono i più indomiti. Maly Vaclav, portavoce di Charta 77 per la difesa dei diritti dell’uomo, era un prete cattolico. Ruotavano tutti attorno a Václav Benda, filosofo e matematico cattolico, e a Dana Mencova, leader della frazione dissidente cattolica e madre di sette figli.
Benda, scomparso nel 1999, aveva sette anni quando Stalin morì, anche se lo stalinismo continuò a vivere a Praga. Benda iniziò a scrivere parlando di una causa che gli sembrava senza speranza: “Il conflitto con lo stato in cui sono entrato sarà lungo, estenuante e, per tutti gli standard umani, senza speranza e in questo paese, questo significa che tutta la mia famiglia, giù fino alla terza generazione, sarà trascinata in questo conflitto”.
Margaret Thatcher era il politico che Benda ammirava di più. La sua integrità era fondata sulla fede cattolica. Aveva una severità fisica. Filosofo di formazione quando la filosofia era un soggetto pericoloso dopo l’invasione, Benda si diede alla matematica. Il regime comunista lo costrinse ai lavori più umili. “Dall’età di diciotto anni sono stato uno studente di filosofia, un assistente docente di filosofia, un maestro di scuola, un idrobiologo, un disoccupato, uno studente di matematica, un programmatore e un fuochista”, ha scritto. “Ho anche lavorato in un birrificio e in un cantiere, come pastore, assistente al montatore, linguista, insegnante di logica ed esperto di computer”.
Roger Scruton ha scritto che “tra chi ha mantenuto vivo lo spirito del popolo cecoslovacco, nessuno era più risoluto di Benda”
Nel maggio 1979, Benda fu arrestato e condannato a quattro anni, il risultato diretto di essere un leader di Charta 77. Strazianti i suoi resoconti delle riunioni con i suoi cinque figli, quando avevano il permesso di visitarlo in galera. La moglie, Kamila, gli portava in segreto la comunione in carcere. La loro casa venne perquisita quindici volte. Nessun vicino offrì mai di far loro usare il telefono.
Intanto, Benda curava i samizdat, i celebri fogli clandestini della dissidenza, si occupava di filosofia e politica, critica letteraria e poesia, scrisse persino un romanzo, “Cern Dvka” (“La ragazza nera”). Le opere di Benda furono determinanti nello sviluppo delle idee dell’opposizione al comunismo. “Il sistema ha elevato il bastone e la carota dall’essere un semplice strumento di governo a un principio ideologico e questo garantisce alle autorità statali e alla loro dottrina una base di potere sicura”, scriveva nell’epoca del dissenso. “Tuttavia, questo sistema affronta un pericolo mortale. Il grido che l’imperatore è nudo può portare a conseguenze abbastanza incontrollabili e inaspettate”. Il comunismo aspirava a controllare ogni aspetto della società, “cominciando dal tempo per finire con le anime degli individui”. Ma questa aspirazione era instabile e insostenibile, ripeteva Benda, nella misura in cui era tagliata fuori dalla verità e dalla realtà. Lo stato totalitario era prepotente, ma fragile. Prima o poi, diceva Benda, fallirà: “Eventi estremamente imprevedibili possono scatenare una valanga capace di scuotere le fondamenta del totalitarismo”. Dava speranza a tutti. Un giorno, la cacocrazia comunista cadrà e la nazione dovrà ricostruire. Se la “polis parallela” di Benda avrà successo, avrà preservato ciò che ha valore nella tradizione della nazione. Per questo Benda invitava i dissidenti a tenere duro con le rispettive famiglie: “Ogni promessa matrimoniale che viene mantenuta, ogni fedeltà che sfida le avversità, è una sfida radicale della nostra finitezza, qualcosa che ci eleva più in alto degli angeli”. Lo stesso valeva per la cultura: “Il nostro passato storico – il nostro patrimonio spirituale, culturale, civilizzato e sociale – è quello in cui il bene di gran lunga predomina sul male”. A differenza di altri, Benda rifiutò le costanti offerte della polizia segreta comunista di firmare una dichiarazione in cui ammetteva di aver infranto la legge in cambio della liberazione e della fuga dal paese. Per otto anni gli è stato negato un telefono e la polizia segreta ha vigilato la sua porta. I suoi figli sono stati esclusi dagli studi e almeno uno è stato minacciato di “sparizione”.
Dopo il 1989, Benda divenne apertamente di destra, voltando le spalle a molti dei suoi amici di un tempo che si gettarono a sinistra. Benda era determinato a purgare la Cecoslovacchia – e dopo la scissione, la Repubblica Ceca – della vecchia guardia comunista. Nel gennaio del 1991 propose che tutti i membri del Parlamento e gli alti funzionari del governo venissero sottoposti a screening per sradicare i collaboratori della polizia segreta. Dopo il crollo del comunismo, Benda ha presieduto il Partito democratico cristiano e la sua attività principale è stata la direzione dell’ufficio per la documentazione e l’investigazione dei crimini del comunismo dal 1991 al 1998. Lo studioso americano Flagg Taylor ha appena curato una edizione in inglese dei suoi scritti, “The long night of the watchman”.
“Tra coloro che hanno mantenuto lo spirito del popolo ceco e slovacco negli ultimi decenni di oppressione comunista, nessuno era più ostinato nelle proprie convinzioni, o più risoluto nella propria condotta di Václav Benda”, ha scritto il filosofo inglese Roger Scruton, che conobbe Benda al tempo della dissidenza. “Non si faceva pubblicità in tribunale, era poco conosciuto in occidente e non aveva un profilo affascinante di ‘dissidente’. Ma era un pensatore profondo e un umile cristiano nella sua vita privata”.
Il principale contributo di Benda al movimento dissidente fu la sua idea di una “polis parallela” da costruire in opposizione al comunismo. In una lettera del febbraio 1980 scrisse: “L’uomo non è al mondo per sopravvivere, ma per rendere testimonianza alla Verità”. Così dal carcere scriveva in continuazione ai figli, chiedendo loro di non mentire, di testimoniare.
Detestava la Ostpolitik vaticana: “Basta compromessi, scendiamo nelle catacombe, anche a costo di lasciare vacanti le parrocchie”
Benda era un severo critico della Ostpolitik del Vaticano, quella politica di cauta e pragmatica “apertura all’est” avviata da Giovanni XXIII e proseguita con vigore da Paolo VI attraverso la paziente opera di Agostino Casaroli. “Con il Papa polacco finiscono i compromessi storici di Paolo VI e monsignor Casaroli”, disse Benda, “e la chiesa scende nelle catacombe, anche a costo di lasciar vacanti decine di diocesi, migliaia di parrocchie. Diviene chiesa segreta, che lavora nell’ombra”.
Benda era il figlio prediletto non del compromesso un po’ arrendevole, ma di quella chiesa di “resistenti” che aveva a Praga la sua capitale. Scriveva con orgoglio che “dal 1948 la chiesa fu l’unica forza organizzata che si oppose al comunismo”. E tornò a esserlo negli anni Ottanta, quando la chiesa si oppose alla “normalizzazione”. Una chiesa di eroi.
Come l’arcivescovo di Praga, Josef Beran, rinchiuso a Dachau dai nazisti, col numero di matricola 35844 sulla casacca. Sotto i comunisti si fece le residenze coatte e le carceri di stato, per quattordici anni ininterrotti. Gli requisirono i timbri e i sigilli episcopali, gli aprivano le lettere e intercettavano le sue telefonate. La Pravda, da Mosca, aizzava contro i cattolici e scrisse che molti preti venivano ordinati con l’aiuto “di centri clericali del mondo capitalista e di immigrati clerico-fascisti”. Non era raro il caso di poliziotti che fermavano le auto con preti a bordo per sottoporli al test dell’alcol, in caso avessero distribuito la comunione con il pane e il vino o detto messa.
Gli arcivescovi Beran e Tomasek, perseguitati prima dai nazisti e poi dai comunisti. Simboli di una chiesa eroica
Il più eroico di tutti fu il cardinale Frantisek Tomasek, il capo di quella “chiesa del silenzio”. Il 21 aprile del 1990 Karol Wojtyla, attraversando per la prima volta dopo la caduta del Muro i confini dell’ex impero comunista, era andato a incontrarlo. “E’ un miracolo”, disse il presidente Havel, “il Papa è venuto nel paese devastato dall’ideologia dell’odio, devastato dal governo degli ignoranti”. Tomasek era rimasto fedele, mentre alcuni vescovi e diversi preti, nelle file dell’associazione “Pacem in terris”, erano più vicini al governo comunista che al Vaticano. Tomasek si era fatto i muscoli sotto i nazisti, che lo avevano cacciato dall’insegnamento nella facoltà teologica di Olomuc. Nel 1949, Pio XII lo nominò vescovo ausiliare di Olomuc, un vescovo clandestino, consacrato di nascosto. I comunisti lo confinarono in una parrocchia di campagna nel villaggio di Moravska Huzova, prima di arrestarlo e internarlo, senza processo, in un campo di lavoro forzato e sottoporlo a torture.
Folla di dimostranti che circondano alcuni carri armati sovietici durante i primi giorni dell'invasione
La distruzione della chiesa cattolica sembrava completa. Su diecimila, ancora funzionavano tremila chiese; i settemila sacerdoti erano ridotti alla metà; otto diocesi su dodici mancavano di titolare. Nel 1968, quando scoppiò la Primavera, Tomasek inviò a Dubcek una lettera in cui appoggiava la nuova politica e chiedeva libertà per tutti. Il popolo sentì che la chiesa era dalla sua parte. Un altro era il cardinale Miloslav Vlk, che i comunisti costrinsero a lavare le finestre. E ancora Jan Korec, obbligato a guadagnarsi la vita come spazzino, poi disoccupato, finché non riuscì a trovare un posto come magazziniere in una fabbrica di prodotti chimici, infine pensionato, cittadino di “terza categoria”. Korec, gesuita, era stato ordinato sacerdote nel 1950, mentre iniziava la persecuzione religiosa e cominciava a organizzarsi una “chiesa catacombale”. Un anno dopo, segretamente, fu ordinato vescovo, a soli ventisette anni. Per nove anni, lavorando in fabbrica, riuscì a esercitare il ministero senza essere scoperto. Nel 1960 la polizia ebbe una soffiata, seppe che Korec diceva messa e teneva riunioni religiose. Dodici anni di penitenziario, fu la sentenza.
Nel 1989, Benda scrisse un testo in cui invocava una “recristianizzazione” del paese dopo i decenni di comunismo. Un anno dopo, Praga tornò libera, il comunismo era crollato. Ma l’ateismo sovietico era riuscito a sradicare il cristianesimo. “Diciotto anni di campagna ateistica hanno lasciato il loro segno” aveva già detto Tomasek nel 1966. Oggi la Repubblica Ceca è giudicata da tutti i rapporti “uno dei paesi più atei al mondo”. Come ha detto Radomír Malý, accademico e giornalista cattolico che aveva firmato Charta 77, spedito dai comunisti a lavorare in una fattoria, “paradossalmente sotto il comunismo le chiese erano piene”. Oggi sono vuote. E’ stata la vittoria dell’altro Sessantotto. Quello dello slogan sul boulevard Saint-Germain di Parigi: “Basta con le chiese”.