E’ plausibile che i fondi Ue abbiano pagato una parte del conto per tenere ferma la Diciotti a Catania per 10 giorni. Foto LaPresse

Quanto spende l'Unione europea per difendere l'Italia

David Carretta

C’è già un piano per aiutarci con il problema immigrazione, ma al governo non piace e il ministro Trenta ha deciso di mettere a repentaglio la missione navale europea Sophia

 

Bruxelles. Una parte degli straordinari dei poliziotti italiani coinvolti nelle attività collegate alla gestione dei flussi migratori sono pagati dal bilancio dell’Unione europea. Per la precisione 13,1 milioni di euro, secondo l’accordo firmato dalla Commissione con il ministero dell’Interno il 24 novembre del 2017. In quella data, la Commissione ha annunciato altri stanziamenti di emergenza all'Italia per gestire l’emergenza migrazioni: 5,8 milioni alla Marina per il dispiegamento di un'unità navale con a bordo elicotteri, 3,2 milioni alla Guardia di Finanza per un sistema aereo navale di controllo delle frontiere e altri 140 mila euro per metal detector e rivelatori di sostanze esplosive, 2,7 milioni alla Guardia costiera per equipaggiamento. A questi stanziamenti, si aggiungono altri 2,5 milioni per le operazioni di ricerca e soccorso in mare, 4,7 milioni al ministero dell’Interno per la mediazione linguistica e culturale.

 

Il 22 dicembre del 2016 era stato firmato un altro accordo con il ministero dell’Interno per uno stanziamento di 9,5 milioni destinato sempre a pagare gli straordinari della polizia. Quello stesso giorno, la Commissione firmava accordi con l’Italia per riattivare la manutenzione e le riparazioni dell’elicottero 1 EH 101 (5,4 milioni), per finanziare le azioni di emergenza di mediazione linguistica e culturale (2,3 milioni), per riequipaggiare il pattugliatore CP 904 Fiorillo della Guardia Costiera (4,6 milioni), e così via. L’ultimo stanziamento d’emergenza annunciato dalla Commissione è del 22 agosto scorso: 9 milioni per migliorare l’accesso alla sanità nei centri di accoglienza dei richiedenti asilo e beneficiari di protezione internazionale, in particolare in Emilia Romagna, Lazio Liguria, Toscana e Sicilia. Complessivamente dal 2015, la Commissione ha mobilitato oltre 200 milioni in fondi di emergenza per sostenere l’Italia di fronte ai flussi migratori, che si sommano ai 653,9 milioni allocati in via ordinaria per le politiche migratorie e la sicurezza interna nel periodo di bilancio 2014-2020. Paradosso: alcune di queste risorse stanno mettendo in difficoltà la Commissione sul piano politico. Secondo le rivelazioni del sito Euobserver, l’Italia avrebbe usato 200 mila euro dell’Ue per finanziare la scorta dell’Aquarius verso il porto di Valencia in Spagna. E’ plausibile che i fondi Ue abbiano pagato una parte del conto per tenere ferma la Diciotti a Catania per 10 giorni, mentre il governo cercava invano di ricattare gli altri stati membri sul ricollocamento dei migranti presenti a bordo.

   

“L’Europa non aiuta l’Italia”, dicono i governi italiani populisti o no, minacciando veti al bilancio comunitario o di fermare i pagamenti all’Ue. “L’Europa non fa abbastanza per l’Italia”, ammettono la Commissione europea, Emmanuel Macron, Angela Merkel e buona parte degli altri leader europei. I soldi non sono tutto. Quelli stanziati dall’Ue sono solo una frazione del costo dell’accoglienza in Italia (anche ci sarebbe da chiedersi come fa la Germania che ne ha accolti quasi 2 milioni o Svezia e Olanda che in termini di popolazione subiscono una pressione ancor più forte). Così la Commissione ha deciso di concedere un po’ di flessibilità di bilancio sui migranti: 2,5 miliardi di sconto sul deficit per il solo 2017. Ma l’Ue si è mobilitata anche con esperti e logistica. Secondo l’ultimo rapporto della Commissione sulle politiche migratorie del maggio scorso, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo ha inviato 38 esperti nazionali, 54 funzionari temporanei e 98 mediatori culturali, Frontex 430 esperti, Europol 18 ufficiali. Su richiesta dell’Italia Frontex ha anche lanciato due operazioni navali, prima Triton e poi Themis, il cui mandato include le operazioni di ricerca e soccorso (l’obiettivo era alleviare il peso sostenuto con Mare Nostrum) e il cui mandato è stato allargato per includere la raccolta di informazioni di intelligence e altre operazioni destinate a individuare foreign fighters o altre minacce terroristiche. A maggio l’operazione Themis beneficiava di contributi da parte di tutti gli altri 27 Stati membri (quasi 500 persone impegnate) e comprendeva due aerei, un elicottero, sei pattugliatori e 14 uffici mobili.

   


   I soldi europei finanziano in parte anche le manovre di Salvini per ricattare gli altri stati europei sul dossier immigrazione


  

“Chi sbarca in Italia, sbarca in Europa”, è stato lo slogan di Giuseppe Conte all’ultimo vertice di giugno. Perché l’Europa non è solidale con l’Italia e non ridistribuisce i richiedenti asilo come aveva promesso di fare nel 2015 con le relocation. In realtà quel programma è stato in vigore per due anni – dal settembre 2015 al settembre 2017 – e per l’Italia tutti i richiedenti asilo che rientravano nelle condizioni – in sostanza siriani e eritrei, e per un certo periodo gli iracheni – sono stati ricollocati: 12.717 dicono i dati del ministero dell’Interno pubblicati in maggio, con altri 28 in corso di trasferimento, 3 in fase istruttoria e 628 registrati che potrebbero ancora essere ridistribuiti in altri paesi. La Germania ne ha presi 5.424, la Svezia 1.408, l’Olanda 1.020, fino ai sei ricollocati in Estonia. Fattura a carico del bilancio Ue: 500 euro per coprire i costi di ciascun richiedente asilo ridistribuito. Ungheria, Polonia e Repubblica ceca non ne hanno presi nessuno – nemmeno dalla Grecia – e così la Commissione Ue li ha portati davanti alla Corte di giustizia dell’Ue (anche se in modo molto tardivo). Secondo l’esecutivo comunitario, il 96 per cento dei richiedenti asilo che erano eleggibili per le “relocation” sono stato effettivamente trasferiti da Italia e Grecia. Scaduto il programma lo scorso settembre, la stessa Commissione ha chiesto agli Stati membri di proseguire, anche se su base volontaria. Di fatto è quanto è avvenuto dopo che il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, ha annunciato la chiusura dei porti nel caso delle imbarcazioni delle Ong dirottate verso altri paesi (l’Italia avrebbe avuto il dovere di accogliere i migranti a bordo) o le navi europee e italiane attraccate in Italia come la Diciotti a Pozzallo. Ma molto più delle relocation ha fatto per l’Italia un altro meccanismo di solidarietà informale e inconfessato, se non quando scoppiano crisi di carattere politico, perché i gendarmi francesi sono troppo muscolari a Ventimiglia o il tedesco Horst Seehofer minaccia di chiudere le frontiere in vista delle elezioni nella sua Baviera: i movimenti secondari. I numeri sono impossibili da calcolare con precisione, ma dal 2014 in poi (l’anno serve come riferimento per i famosi 700.000 clandestini da rimpatriare) centinaia di migliaia di migranti sbarcati in Italia sono scappati verso altri paesi europei, in barba a Schengen e a una miriade di altre regole Ue.

“No way” e “soluzione australiana” è quello che grida Salvini in faccia all’Ue. Del resto, è anche quello che – facendo il minimo rumore possibile – stanno cercando di fare l’Ue e i suoi stati membri sostenendo l'Italia in Libia. C’è stata la copertura politica dei patti conclusi dall’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, con le autorità legittime di Tripoli ma anche le varie milizie. C’è stato il silenzio nei confronti delle operazioni teleguidate dall'Italia (sempre Minniti) per spingere la Guardia costiera libica a intercettare i migranti nelle acque territoriali e poi la Libia a dichiarare una Sar zone anche se tutti sanno che Tripoli non ha capacità di ricerca e soccorso su un’area così ampia. C’è stato infine il lancio dell’operazione EUNAVFOR MED Sophia del 2015 per lottare contro il traffico di migranti nel Mediterraneo centrale. Il mandato include l’attuazione dell'embargo alle armi alla Libia, l’addestramento della guardia costiera libica e operazioni contro il traffico illegale di petrolio.

  

I risultati sono consistenti. In tre anni, l’operazione Sophia ha neutralizzato 551 imbarcazioni al largo della Libia e arrestato 151 presunti trafficanti che sono stati consegnati all’Italia. Il numero di guardia coste libici addestrati ammonta a 237, mentre gli eventi sull’embargo alle armi (intercettazione e ispezioni di imbarcazioni) in cui Sophia è stata coinvolta sono stati 2.156. Le operazioni di ricerca e soccorso in mare non rientrano nel mandato di Sophia, ma le sue navi possono essere coinvolte in salvataggi dei migranti come previsto dal diritto internazionale del mare e su istruzione del centro di coordinamento di soccorso marittimo competente. Il numero di salvataggi in mare ammonta appena al 10 per cento di quelli effettuati: secondo i dati più aggiornati aggiornati, nel 2018 le navi dell’operazione Sophia hanno salvato 2.292 migranti. La cifra è in netto calo rispetto agli anni precedenti (11.617 nel 2017, 22.885 nel 2016, 7.402 nel 2015) in linea con la diminuzione delle partenze dalla Libia. Ma il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha comunque deciso di mettere rischio la missione, proponendo ai ministri della Difesa Ue il principio della “rotazione dei porti” di sbarco dell'operazione Sophia, ben sapendo che gli altri stati membri sono contrari.

L’Ue non si è tirata indietro nemmeno sul “Aiutiamoli a casa loro”. Prima, su iniziativa dell’Italia e un contributo significativo dell’Alto rappresentante Federica Mogherini ha lanciato il Trust Fund per l’Africa: 3,4 miliardi finanziati in gran parte dal bilancio Ue, visto che gli stati membri non hanno mantenuto le loro promesse in termini di contributo nazionale. Il principale donatore fuori dal bilancio Ue non è l’Italia (104 milioni), ma la Germania (157 milioni). Fino a maggio, attraverso il Trust Fund per l’Africa, stati approvati 147 programmi per un totale di 2,5 miliardi di euro tra il Sahel (1,3 miliardi), il Corno d'Africa (820 milioni) e il Nord Africa (335 milioni). Poi Mogherini e la Commissione hanno lanciato il Piano di investimenti esterni, che a maggio aveva con 1,5 miliardi disponibili. Obiettivo: replicare l'effetto leva sui mercati del Piano Juncker per gli investimenti in Africa. L’immigrazione è stata inserita nelle strategie per le relazioni con i paesi dell'Africa. L’Ue ha così ripreso a lavorare sulla questione migratoria, compresi gli accordi di riammissione e rimpatrio, con Etiopia, Guinea, Gambia, Costa d'Avorio e Nigeria. Per bloccare i flussi verso la Libia si è intensificata la cooperazione con il Niger (ma anche l’Egitto), compresi programmi di rimpatrio volontario da Agadez dove si ammassano i candidati all'attraversata del Mediterraneo centrale.

Aldilà delle risorse finanziarie, l’Ue ha pagato soprattutto un costo politico per cercare di aiutare – mai abbastanza – l'Italia nella gestione dell’emergenza migratoria. Le Ong accusano l'Ue di essere complice dei maltrattamenti dei migranti che vengono riportati in Libia dalle motovedette libiche. La società civile e diversi europarlamentari puntano il dito contro la criminalizzazione da parte dell’Ue delle imbarcazioni delle Ong che operano al largo delle acque territoriali libiche. La Commissione Juncker è stata coraggiosa nel proporre nel 2015 un programma di ricollocamenti obbligatori tra gli Stati membri, ma imponendo ai paesi dell’Est a accettare migranti ha aperto una profonda frattura politica tra Est e Ovest e una ferita che continua a sanguinare e a avvelenare i rapporti. Eppure la Commissione e l'Unione Europea non hanno mai ottenuto competenze sostanziali sulle questioni migratorie. Il sistema di regolamenti e direttive in realtà regola le relazioni tra gli Stati membri. Bruxelles non ha alcun diritto di dire quali migranti far entrare, indicare in quali porti far attraccare le imbarcazioni o di imporre a uno stato membro di creare centri chiusi (la Commissione lo ha più volte chiesto all’Italia, invano). Gli stati membri hanno voluto mantenere la competenza totale sull’immigrazione. I risultati si vedono nei rimpatri, che lo scorso anno sono crollati (da 226.150 nel 2016 a 188.920 nel 2017) malgrado numerosi richiami da Bruxelles. Idem per l’ultima offerta all'Italia, quella fatta al Consiglio europeo di giugno: un gruppo di Stati membri era pronto a prendersi una parte dei migranti, a condizione che il governo Conte riaprisse i porti e li trasferisse in “centri sorvegliati” da dove ricollocare i richiedenti asilo e rimpatriare gli illegali, il tutto a spese del bilancio Ue. L’Italia ha rifiutato i centri sorvegliati e così, quando la Diciotti è arrivata a Catania, anche gli altri stati membri hanno rifiutato di prendersi gli eritrei. Perché, se non si vuole giocare al gioco europeo, i migranti restano nazionali.