La missione dei filantropi israeliani in Iraq
“Cacciarono prima noi ebrei, ora i cristiani. Per questo li aiutiamo”. La International Fellowship of Christians and Jews assiste anche cento famiglie druse fuggite dalla Siria, dove sono massacrate dagli islamisti
Roma. Il 6 agosto 2014, l’Isis conquistò il villaggio cristiano di Batnaya, in Iraq. I vicini di casa di Carlos Barbar riuscirono a fuggire, ma il padre di Carlos non era in grado di camminare e la famiglia non aveva un’auto. Carlos rimase a proteggere i genitori. I terroristi ordinarono a Carlos di convertirsi all’islam, di pagare la tassa sui dhimmi o di andarsene. Uno dei terroristi gli strappò la croce dal collo e disse a Carlos di calpestarla. “Gli risposi, ‘ti metto un piede sul collo, ma mai sulla croce, ho il mio Dio ed è anche il tuo’”, ha raccontato Carlos. La canna di un fucile lo colpì alla testa e crollò. Al risveglio, Carlos pendeva dal soffitto. “Mi hanno immerso la testa nell’acqua sporca, mi hanno picchiato con un bastone pieno di chiodi, mi hanno legato e messo il sale sulle ferite”. Dopo mesi di agonia, Carlos è riuscito a raggiungere prima Baghdad e da lì Amman, in Giordania, dove oggi riceve assieme ad altri 14 mila cristiani un aiuto molto particolare. Un aiuto israeliano.
La libertà religiosa è sempre stato un aspetto fondamentale della International Fellowship of Christians and Jews sin dal suo inizio quarant’anni fa. Tuttavia, la più grande organizzazione filantropica in Israele (raccoglie 180 milioni di dollari all’anno in donazioni) era stata finora conosciuta per il suo aiuto agli ebrei perseguitati, dall’Etiopia all’Unione sovietica. Adesso, con la campagna “Rescue the Persecuted”, l’organizzazione israeliana ha ampliato la sua missione aiutando i cristiani perseguitati. “Avevamo già aiutato la comunità copta in Egitto, dove i bambini sono stati strappati dagli autobus e uccisi solo in quanto cristiani”, ha detto alla stampa israeliana il fondatore, Yechiel Eckstein, aggiungendo che l’organizzazione assiste anche cento famiglie druse fuggite dalla Siria, dove sono massacrate dagli islamisti.
Poiché i cristiani iracheni sfollati dall’Isis non sono ancora riconosciuti come rifugiati, vivono in un limbo, non possono tornare a casa, ma non possono nemmeno lavorare o stabilirsi appieno nel loro nuovo paese, come la Giordania in questo caso. L’organizzazione filantropica israeliana così ha raccolto per loro 600 mila dollari. L’obiettivo è arrivare a cinque milioni all’anno. “Come le comunità ebraiche di tutto il medio oriente e il Nord Africa, c’erano comunità cristiane in questi luoghi da duemila anni, ma ora sono state spazzate via”, ha detto Eckstein.
La clinica israeliana di Amman non ha nomi ebraici fuori e non vi si porta la kippah per sicurezza. Ma i cristiani iracheni aiutati da Eckstein se lo ricordano bene, quando avevano dei vicini di casa ebrei in Iraq, prima dei pogrom, delle fughe e del salvataggio israeliano via Kurdistan. Una storia che si è ripetuta coi cristiani. Le storie che Eckstein ha sentito in clinica sono strazianti. Dall’incontro con un ragazzo sfregiato a vita con olio bollente dall’Isis a un uomo sepolto vivo e salvato dopo tre giorni. I fondamentalisti islamici lo avevano promesso: “Prima il Popolo del Sabato (gli ebrei, ndr), poi quello della Domenica (i cristiani, ndr)”. Sono stati di parola.