Fayez al-Serraj (foto LaPresse)

La Libia e i padroni del caos

Arturo Varvelli*

Non coinvolgere le milizie nella ricostruzione dello stato libico sarebbe un (altro) errore fatale

L’azione militare della Settima Brigata, appartenente alla città di Tarhouna, a sud di Tripoli, ha mostrato ancora una volta quanto precaria sia la stabilità libica. La penetrazione nella capitale di questa milizia, al momento arrestata, rischia di rompere gli equilibri nati intorno al governo di unità nazionale guidato da Fayez al-Serraj e voluto dalle Nazioni Unite, fino a rischiare di rovesciarlo.

 

Dall’insediamento di Serraj a oggi, nella capitale si è formato cartello di milizie che sostiene il governo di unità nazionale e che ha una relazione privilegiata con al-Serraj e con le potenze straniere che lo appoggiano. Queste milizie hanno espanso i propri poteri e le proprie influenze creando una sorta di oligopolio. Questo “cartello”, in un paese nel quale il monopolio dell’uso della forza non è prerogativa dell’autorità centrale e si è dissolto dalla caduta del regime di Gheddafi, gestisce buona parte delle istituzioni, controllando nodi importanti nella capitale come le banche, garantendone la sicurezza in cambio di importanti compensi. Una posizione privilegiata che permette loro di accedere a fonti di potere e di finanziamento.

 

Nei prossimi giorni sarà determinante osservare il posizionamento di alcune milizie importanti come quelle di Zintan e altre appartenenti alla città Misurata: ciò potrebbe decretare il successo o il fallimento di questa iniziativa militare. La vicenda è comunque un’ulteriore presa d’atto del fallimento delle trattative internazionali. Non è pensabile convocare vertici, come accaduto il 29 maggio a Parigi, con quattro rappresentanti politici libici pensando possano risolvere la situazione. Un numero così limitato non può essere rappresentativo della complessità libica e, più importante, perché sono i rappresentanti politici stessi a non essere rappresentativi.

 

Un tentativo di coinvolgere le milizie nella ricostruzione dello stato libico c’è stato, in particolare durante il periodo di Ali Zeidan, ma ha avuto scarso successo. Ciò è stato dovuto in particolare al fatto che il tentativo di integrazione delle milizie nella polizia o nelle forze armate sia rimasto solamente un tentativo “tecnico” e non realmente politico. E’ mancato un vero programma di disarmo smobilitazione e reintegrazione (Ddr) tale da restituire allo stato il monopolio legittimo dell’uso della forza: i gruppi armati non sono stati sufficientemente incentivati a disarmarsi, attraverso la prospettiva di un processo di reintegrazione che non è solo sociale ed economico del singolo ex-combattente, ma anche politico per l’intero gruppo. Il risultato è stato che le milizie hanno ottenuto una doppia affiliazione: formalmente erano sotto il controllo del ministero dell’Interno o della Difesa, mentre informalmente continuavano ad appartenere alla comunità locale che le aveva costituite e alla leadership, il signore della guerra o il leader tribale di riferimento.

 

La narrativa spesso utilizzata per descrivere la questione dei gruppi armati è di scarsa utilità: con poco realismo, tende a considerare questi attori come un blocco unico, respingendoli nella loro interezza come gruppi criminali e minacce per lo stato. Ciò non tiene conto della legittimità, talvolta anche ampia, di cui le milizie godono all’interno delle rispettive comunità locali. Attori come Hezbollah, le Tigri Tamil, l’Esercito di Liberazione del Kosovo e l’Esercito Repubblicano Irlandese (Ira) sono stati organizzati come entità distinte dallo stato e in opposizione ad esso, in gran parte come risultato delle richieste locali e delle rimostranze delle rispettive comunità. Tuttavia, avendo stabilito istituzioni parallele, si sono dati un ruolo di “costruttori” di statualità – seppure spesso non sull’intero territorio nazionale – risultando degli interlocutori imprescindibili delle istituzioni riconosciute nel processo di pacificazione di società reduci da un conflitto e di consolidamento dei rispettivi stati nazione . L’esclusione delle milizie da qualsiasi trattativa non tiene conto della realtà: in più casi gli attori non statali armati soppiantano lo stato nella fornitura di servizi e sicurezza. Pensare che le milizie debbano per forza svolgere un ruolo oppositivo rispetto agli attori statali è fuorviante: se gestita bene, la concorrenza tra attori statali e non può diventare in alcuni casi cooptazione, e le azioni dei miliziani possono rafforzare gli obiettivi nazionali, per esempio contrastando altre milizie scopertamente “anti-stato”. In Libia non si gioca una guerra ideologica – i radicali sono egualmente distribuiti in ogni campo – ma un conflitto di potere, perciò serve pazienza e tanto realismo. Ricominciamo partendo dalle milizie.

*senior research fellow Ispi

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