Domande da porsi dopo il caso Bannon

Daniele Raineri

Chi decide il “de-platforming” dei provocatori ributtanti? E Twitter ormai controlla il pensiero?

New York. Lunedì il direttore del New Yorker, David Remnick, ha fatto un raro passo falso che ha scatenato molte discussioni. Prima ha invitato al festival della rivista Steve Bannon, l’ex consigliere di Trump alla Casa Bianca e ideologo del nazionalismo americano, e poi davanti alle proteste degli altri invitati – che su Twitter annunciavano in massa che non avrebbero mai partecipato a un festival assieme a Bannon – ha chinato il capo e ha scritto un comunicato molto imbarazzato per ritirare l’invito. L’idea di una conversazione molto dura e pubblica con l’ex stratega di Trump risaliva a sette mesi prima e avrebbe dovuto rafforzare l’immagine del festival – “vedete, siamo osservatori del mondo aperti a ogni discussione” – ma si è trasformata in una fuga e in un disastro di pubbliche relazioni. Bannon ha subito colto l’occasione per dire che Remnick “non ha lo stomaco per affrontare la folla ululante” e ha vinto a tavolino il confronto. La protesta contro di lui però è stata così efficace e veloce che la newsletter politica Axios la sera stessa ha definito Twitter come un esperimento di “mind-control”: molte persone influenti si scambiano messaggi pubblici sullo stesso sito, possono creare un movimento d’opinione in un lampo e ottenere quello che vogliono.

    

L’idea di chi ha protestato con il direttore del New Yorker era semplice: il programma di Bannon non va discusso in pubblico, va respinto in blocco, perché i nazionalisti americani – che strizzano l’occhio ai suprematisti bianchi e a un vasto assortimento di frange estremiste – non superano la soglia minima della decenza. Pochi giorni prima era successo un episodio minore che in qualche modo aveva dato loro ragione. Milo Yiannopoulos, che un paio di anni fa era il ragazzo-prodigio alla testa della rivoluzione trumpiana a colpi di provocazioni (pensate a una versione glamour e più eversiva di Bannon) e che poi è stato bandito da Twitter e licenziato dal sito Breitbart perché ha spinto le provocazioni troppo in là (razzismo e pedofilia), aveva scritto una lunga lamentela sul suo profilo privato di Facebook per ammettere che la sua vita ormai è rovinata. Da quando ha perso l’accesso a Twitter ha perso anche ogni rilevanza e la capacità di farsi ascoltare, non ha più un seguito, sprofonda nei debiti ed è molto pentito dei suoi anni di guerriglia ideologica finiti così male. Vedete, è stato il commento compiaciuto di molti dopo avere constatato la depressione di Yiannopoulos, il de-platforming funziona alla grande.

 

Il de-platforming è quando qualcuno ha idee troppo controverse o repellenti e quindi è estromesso dall’uso di piattaforme che ne amplificano il messaggio milioni di volte, virtualmente all’infinito. E’ un po’ quello che è successo allo Stato islamico, che fino al 2014 faceva propaganda praticamente senza essere disturbato grazie a centinaia di migliaia di account su Twitter e Facebook ma che negli ultimi quattro anni è stato virtualmente sradicato (esistono ancora poche decine di account, in ordine sparso, che appaiono e scompaiono e non hanno più la potenza di fuoco di prima). E’ lo stesso dibattito che riguarda Alex Jones, il conduttore radiofonico fuori di testa che sostiene che la strage di bambini di Sandy Hook in realtà è una messinscena del governo e che i bambini non sono morti, e c’è chi lo segue e si convince a tal punto che va dai genitori delle vittime a insultarli come “impostori” (Facebook, Apple e altri hanno quindi deciso il de-platforming di Jones senza appello).

       

A questo punto la grande domanda è: se il de-platforming funziona, chi decide quando usarlo e contro chi? Ieri il capo di Twitter, Jack Dorsey, ha speso una mattinata davanti alla commissione Intelligence del Senato americano per spiegare come si regola lui, ma non è riuscito a convincere. L’idea che le grandi aziende private riescano a regolarsi da sole non ispira fiducia, e l’idea che sia il governo a prendere il controllo di questa materia è ancora più problematica.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)