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Paura sul Danubio

Giulio Meotti

Il terrore ungherese di perdere territorio, popolazione e identità Ecco chi sono gli ideologi che stanno dietro il premier Orbán

"Una democrazia scompare”, ha scritto lo scorso aprile Andrew Sullivan sul New York Magazine, a ridosso delle elezioni che hanno riconfermato Viktor Orbán primo ministro dell’Ungheria. Timori fondati, se si considerano le concentrazioni di potere o l’ostilità verso alcuni media, che hanno spinto molti a decretare la nascita a Budapest di una “democrazia illiberale”. Orbán è il leader dell’“altra Europa”. Il troublemaker. Il “nemico interno” (Financial Times). Il bad boy della Ue. L’autocrate allievo di Helmut Kohl accusato di voler distruggere l’Unione europea. Per Foreign Affairs, è “il Putin ungherese”. Il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, lo chiama “Viktator”. Il premier ungherese, dai migranti al liberalismo, è la nemesi di Bruxelles. E ha costruito un asse paneuropeo che va dai paesi di Visegrad all’Austria, passando per la Lega di Matteo Salvini. “Sebbene Orbán governi un piccolo paese, ha una importanza globale”, osserva l’analista bulgaro liberale Ivan Krastev.

 

Da Téller, che ha teorizzato la borghesia patriottica, a Lánczi, filosofo straussiano autore del “manifesto conservatore”

Una gravidanza su tre finisce in un aborto e il paese potrebbe perdere la metà della popolazione alla fine del secolo

Orbán ha certamente vinto la partita economica. Il debito pubblico ungherese, in proporzione al prodotto interno lordo, è diminuito di oltre sei punti percentuali dal 2010. Il deficit di bilancio si è dimezzato. La crescita è quadruplicata. Gli stipendi sono aumentati del dieci per cento. Ufficialmente, la disoccupazione è diminuita di quasi due terzi. Ma “una democrazia scompare” sicuramente in Ungheria, anche se non per le ragioni addotte da Sullivan, ma a causa di una spaventosa crisi demografica. A giugno Philip Auerswald, docente della George Mason University, aveva scritto sul New York Times che “dove le popolazioni si restringono, il populismo vende”. Ha ragione Cas Mudde sul Guardian quando scrive che l’Ungheria non rappresenta il futuro, ma un “passato morente”: “Nonostante l’ossessiva retorica del governo Orbán sul salvataggio della nazione ungherese, l’Ungheria ha la seconda peggiore crescita demografica nella Ue. Il paese ha una perdita netta di una persona ogni sedici minuti”.

 

Ed è questa sensazione di declino che anima tutti gli intellettuali e ideologi che ispirano Orbán, mai raccontati finora dai media. Il giovane Orbán era un appassionato dissidente, diventato famoso per un discorso del 1988 in cui chiedeva alle truppe sovietiche di lasciare il territorio ungherese. In un’altra manifestazione, rischiò la vita per proteggere un leader dell’opposizione, Gaspar Miklos Tamas, prendendo diversi colpi in testa. “Ma non era il suo obiettivo essere un politico”, ha detto Gabor Fodor, ex compagno di stanza e migliore amico di Orbán. “Voleva essere un intellettuale e un membro dei circoli intellettuali ungheresi”. Questo prima di lanciarsi nella carriera politica.

 

Oggi chi sono gli intellettuali dietro Orbán? Ne fornisce una panoramica Paul Lendvai, l’ex corrispondente per l’Europa centrale del Financial Times, autore del nuovo libro “Orbán: Hungary’s Strongman”. C’è Gyula Tellér, nato nel 1934, protetto del celebre poeta Sándor Weöres e lui stesso stimato traduttore di Edgar Allan Poe, Milton, Mallarmé e Rimbaud, diventato poi un punto di riferimento della dissidenza anticomunista negli anni Settanta. Le idee di Tellér contribuirono alla creazione di Fidesz, il partito di Orbán, ma a differenza di altri non ha abbandonato il partito dopo la svolta populista. Sua l’idea di una “polgári Magyarország”, l’Ungheria dei borghesi. Gli ex leader capelloni e libertari di Fidesz, raccolti attorno a Orbán, iniziarono a difendere l’ideale del polgári, il borghese patriottico, civico e affine al tedesco Bürger, dal forte impegno nei confronti dei valori familiari tradizionali. Una visione che attirò gli elettori e con cui nel 1998, Orbán, all’età di trentacinque anni, divenne il primo ministro più giovane d’Europa. Nel suo entourage oggi c’è la storica Mária Schmidt. Crede che, dopo la caduta del comunismo, l’Europa e gli Stati Uniti abbiano cercato di sottomettere l’economia ungherese. E’ la fondatrice e direttrice della House of Terror, il museo dedicato agli orrori perpetrati dai sovietici contro il popolo ungherese. Schmidt non ha perdonato l’occidente per la sua acquiescenza. “Noi nell’Est Europa non siamo tutti stupidi”, ha detto a Foreign Policy. “Sappiamo che l’occidente stava vivendo una vita molto bella durante quel periodo mentre eravamo sotto il dominio comunista, che era sostenuto dagli intellettuali di sinistra in ogni modo possibile”. L’idea di Schmidt, che è anche proprietaria di Figyelo, l’ex celebre settimanale economico diventato secondo molti un foglio orbaniano, è che “l’Europa, in particolare le sue parti occidentali e settentrionali, ha creato società così ricche che meritatamente suscitano l’ammirazione e l’invidia delle regioni con standard di vita più bassi. Ma questi paesi sono ricchi e deboli”.

 

La teoria della “sovranità perduta” di Schmidt è diventata dogma ufficiale con l’adozione nell’aprile 2011 della nuova Legge fondamentale dell’Ungheria, secondo cui l’autodeterminazione dell’Ungheria fu persa il 19 marzo 1944, con l’invasione nazista, e non fu ripristinata fino al 2 maggio 1990, con la cacciata dei sovietici. Orbán è impegnato nella costruzione di una nuova narrazione storica per il suo paese, che è stato sul lato perdente di ogni conflitto che ha combattuto da quando i turchi ottomani lo invasero nel 1526. L’inno nazionale è una invocazione a Dio di avere pietà di una nazione “a lungo dilaniata da un destino malato” in un “mare della sua miseria”. Una nuova festa stabilita attraverso un emendamento costituzionale ha impresso nella storiografia ufficiale nazionale il trattato di Trianon del 1920, con il quale gli Alleati spogliarono l’Ungheria di due terzi del territorio, contribuendo a creare la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. E’ l’idea dell’Ungheria “tradita dall’occidente”. La memoria di Trianon è oggi la coscienza ungherese e il tema delle minoranze magiare fuori dai confini, rimasto tabù durante gli anni comunisti, è riemerso negli ultimi anni. Un anno fa, Orbán ha tenuto un discorso a Kötcse: “L’Ungheria non è mai stata così forte dai tempi di Trianon”.

 

Nel 2015 l’Ungheria ha ricevuto 174 mila domande di asilo, ovvero 1.770 richiedenti ogni 100 mila residenti, il tasso più alto di qualsiasi altro paese europeo. Evocando la minaccia, Orbán allora costruì una barriera lunga 110 miglia lungo il confine con la Serbia per tenerli fuori, e poi un altro al confine con la Croazia. Citando sempre il trattato di Trianon contro le politiche europee sui migranti, Orbán fece gioco forza sul mito della vittima e sulla volontà di sopravvivere.

 

Fra i consiglieri di Orbán spicca il nome di Andràs Lanczi, il rettore della Corvinus University, l’autore del “Manifesto conservatore” ungherese e capo del think tank conservatore Századvég, decisivo nella storia di Fidesz. Le idee di Lánczi sono simili al neoconservatorismo americano, ma con un “tocco” mitteleuropeo. La base del conservatorismo di Lánczi è la “moralità”. Le sue parole preferite sono “ordine”, “stabilità”, “leggi della natura” e “gerarchia”. Parole riecheggiate nei discorsi di Orbán. In Europa un capitolo storico si sta concludendo perché “un sistema di coordinate intellettuali ha perso la sua validità”. L’élite economica, che secondo Lánczi è liberal e simpatizza con la sinistra, si trova di fronte a un “vuoto ideologico”. “La macchina ben oliata dei circoli finanziari neoliberal prospera cercando di convincere il mondo delle loro verità”. La “prima generazione” di conservatori vicini a Fidesz usava a malapena il termine “conservatore”, e tuttavia si concentrava già sulla diffusione del conservatorismo occidentale (Lánczi ha scritto la sua dissertazione su Leo Strauss, la cui opera “Diritto naturale e storia” si dice sia fra i libri favoriti da Orbán). Nel 2007, Lánczi ha fondato il Center for European Renewal, un’organizzazione paneuropea di accademici che ha pubblicato la rivista The European Conservative e che ha avuto fra i suoi membri l’inglese Roger Scruton e il polacco Ryszard Legutko.

 

Fra i consigliere di Orbán c’è Miklos Kásler, che ha appena bandito i gender studies come parte di una “guerra ideologica e culturale”. Dopo la sua clamorosa vittoria lo scorso aprile, Orbán ha apportato alcuni cambiamenti nella sua squadra governativa. E quello che ha fatto più clamore è senza dubbio la nomina del celebre professor Kásler a capo del super dipartimento “Risorse umane”, che combina gli ex ministeri di salute, istruzione, affari sociali e lavoro. Questo oncologo dirige l’Istituto nazionale ungherese di oncologia e insegna all’università. Secondo lui, il liberalismo ha raggiunto i suoi limiti. Kásler è uno dei teorici della ripresa demografica ungherese. Lo scorso maggio, Orbán ha accusato la democrazia liberale di essere la causa del suicidio demografico cui sembra condannato quel paese. L’Ungheria ha di fronte un futuro fatiscente. La popolazione ungherese è al suo punto più basso in mezzo secolo, essendo caduta costantemente, passando da 10.709.000 nel 1980 agli attuali 9.799.000. Il declino è ora un record dello 0,5 per cento l’anno. Ci saranno meno di otto milioni di persone in Ungheria nel 2050, con il doppio (uno su tre) con una età superiore ai 65 anni.

 

La più radicale delle riforme orbaniane è il Programma di sostegno alla famiglia, noto con l’abbreviazione ungherese “Csok”. Una “politica dei tre figli” che dal 2016 per una coppia sposata che compra una nuova casa con almeno tre figli stanzia sussidi che vanno da 50 a 80 mila dollari. Dato che lo stipendio medio in Ungheria è solo di circa 15 mila dollari all’anno, un sussidio di impatto equivalente per gli americani, basato su quei redditi più alti, ammonta da 40 a 250 mila dollari. Un programma che non ha precedenti. Ma parlando con Hungary Today, Pál Demény, demografo ed economista ungherese di fama mondiale, le cui ricerche sul declino della popolazione sono state estremamente influenti a livello internazionale, fuggito in America in seguito alla caduta della rivoluzione del 1956 e che oggi vive a Budapest, ha detto che il collasso demografico del suo paese è “irreversibile”.

 

La storica Schmidt, custode della memoria dei crimini comunisti, che teorizza la perdita di sovranità dopo Trianon, i nazisti e i sovietici

Dal medico Kásler al calvinista Balog, per gli uomini del primo ministro la società è un grande campo di battaglia

Per capire il dramma demografico dell’Ungheria dobbiamo dare un’occhiata ai numeri. Negli ultimi quarant’anni la popolazione dell’Ungheria è diminuita di circa un milione di persone. E se continua così, l’Ungheria nel 2100 avrà la metà della popolazione che ha oggi, appena 5,4 milioni di abitanti (nella migliore delle ipotesi subirà una perdita del 34 per cento dell’attuale popolazione). “Tre generazioni fa c’erano molte famiglie con 8-10 bambini” ha detto il medico e ministro Kásler. “Il capofamiglia lavorava nei campi mentre sua moglie continuava con i bambini e le faccende domestiche. Vivevano in grande povertà. E questo è stato così per secoli. Poi sempre più persone si aspettavano, soprattutto all’inizio degli anni Novanta, la ricchezza. Il denaro e il potere, così come le delizie di vari piaceri, hanno acquisito priorità, e i valori della famiglia e della comunità nazionale sono stati messi in secondo piano”. E’ l’origine del “paternalismo demografico” del governo ungherese.

 

Budapest non vuole fare la fine della Lettonia, che da quando è entrata in Europa ha perso un quinto della popolazione, passando da 2,38 milioni a 1,95. Anett Bosz, politica liberale del Parlamento ungherese, rivolta al ministro della Famiglia ungherese Katalin Novák ha detto che “la società non è un campo di battaglia”. Per gli orbaniani è vero l’esatto contrario. Ha detto il ministro Novák: “In Ungheria c’è stata una diminuzione della popolazione dal 1981. Abbiamo perso più del dieci per cento della popolazione, circa 850 mila persone”.

 

In questi anni, Orbán è riuscito a far salire il tasso demografico, anche se ancora poca cosa. E’ sicuramente riuscito ad abbassare il tasso di aborti. All’apice del regime comunista, alla fine degli anni Settanta c’erano 130 aborti ogni mille nascite. Oggi sono scesi a 31. Tra il 2010 e il 2015 il numero di aborti in Ungheria è diminuito del 22,9 per cento, ma rimane piuttosto alto rispetto alla media dei paesi dell’Europa occidentale. Gli esperti attribuiscono questo alto tasso al periodo comunista, che ha oppresso per decenni i paesi dell’Europa centrale e orientale (Orbán ha messo il diritto alla vita anche nella Costituzione). Il sottosegretario di stato per la famiglia e la demografia, Tünde Fűrész, in un’intervista a Magyar Hírlap ha detto che c’è un aborto ogni tre nascite in Ungheria, rispetto alla media di un aborto ogni cinque nascite nell’Europa occidentale.

 

Orbán si affida a Zoltán Balog, il ministro calvinista con cinque figli, per i temi religiosi. La chiesa riformata ungherese è estremamente puritana. Le pareti delle chiese sono disadorne con l’eccezione di una lista di salmi e inni da cantare composti nel XVI secolo da Teodoro Beza, un discepolo di Calvino. Il ministro si chiama “lelkipásztor”, leader delle anime. Anche Orbán è calvinista, mentre la moglie, Anikò Lévai, è profondamente cattolica. Sebbene originariamente antireligioso, Orbán iniziò a coltivare legami con i dirigenti della chiesa. Un giorno disse a Balog che se non avesse capito il ruolo della chiesa “non avrebbe potuto parlare con la gente”. Così gli chiese di organizzare per lui dozzine di incontri e tavole rotonde con i leader religiosi. Una strategia vincente, tanto che oggi Orbán gode del favore anche di buona parte del clero cattolico. E Orbán ha fatto forza su questa vocazione cristiana, introducendo in costituzione “il ruolo del cristianesimo nel preservare la nazione” e promuovendo, per la prima volta dopo la caduta del comunismo, l’educazione religiosa nelle scuole.

 

Questi teorici dell’assedio esistenziale all’Ungheria (demografico, dei liberal, dell’islamismo, delle supposte élite) hanno costruito una fortezza conservatrice in seno all’Europa, basata sulle memorie negative dell’aggressione ottomana per 150 anni; sull’ossessione per la sovranità, dopo averla riconquistata dall’Unione sovietica appena ventinove anni fa; e sull’ottimismo un po’ paranoide secondo cui la popolazione dell’Ungheria può essere stabilizzata anche senza immigrazione. Siamo tornati al tempo di Johann Herder e alla “morte nazionale” dell’Ungheria. Nel suo diario del 1791, il filosofo tedesco predisse che la lingua e la cultura ungheresi, e con esse la nazione ungherese, sarebbero scomparse, assimilate dai vicini. In Ungheria oggi circola un libro, “Herder arnyékàban”, all’ombra di Herder. E’ la grande angoscia di questa nazione.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.