Un voto europeo sui valori, ohibò
Strasburgo vota contro Orbán e non cade nella trappola populista
Milano. Il Parlamento europeo mercoledì ha votato a favore dell’applicazione dell’articolo 7 del Trattato europeo – 448 voti a favore, 197 contrari, 48 astensioni – che apre una procedura disciplinare sulla tenuta dello stato di diritto in Ungheria. La prossima mossa spetta al Consiglio europeo, ma non sarà definitiva: ci sono ancora molti passaggi, tra Strasburgo e Bruxelles, prima di arrivare al comma 3 dell’articolo, che prevede un meccanismo di sanzioni che include anche la sospensione dei diritti di voto. Di effettivo a oggi non c’è nulla, ma la politica lenta dell’Europa si muove anche per simboli e per prese di posizione, e nonostante i tormenti soprattutto all’interno dei mondo conservatore – il premier ungherese, Viktor Orbán, e il suo partito Fidesz fanno parte del Partito popolare europeo – il segnale è arrivato chiarissimo. Dal 2010 a oggi, Orbán ha deteriorato il sistema istituzionale e il pluralismo ungheresi, un passo alla volta, prima in termini quasi cosmetici poi sempre più decisi e sfrontati. Ora Budapest dice che il voto di Strasburgo è una “vendetta” per l’ostruzionismo alla politica solidale dell’immigrazione, ma non è questo il significato di questa azione europarlamentare.
Per una volta, il consesso europeo ha voluto concentrare l’attenzione sui valori che tengono insieme l’Unione, su quelle regole di base, liberali e democratiche, che hanno sempre fatto da collante in Europa. Di più: non si tratta soltanto di tenersi in qualche modo insieme, ma anche di aver voglia di far parte del progetto. Questi valori sono stati per decenni una forza d’attrazione: aderire all’Ue è stato il sogno di nazioni e popoli per molto tempo, e questo l’Ungheria, che è stata ammessa nel 2004, non può non saperlo. Se questi valori vengono meno o sono volutamente ridimensionati e sviliti per sostituire alla democrazia liberale la sua versione illiberale, l’Europa si trova di fronte a un problema grande. Assecondando la propria natura, Bruxelles ha cercato di gestire questo scivolamento con qualche richiamo, qualche imposizione, qualche buffetto, sperando di riportare Budapest sulla strada comune, e anche se la risposta è stata sempre più intransigente, e i toni sono diventati tetri, ha continuato a tentare. Ci stava provando anche questa volta: le divisioni all’interno del Ppe sono lo specchio di questo tentativo goffo di mantenere lo status quo, in nome di un tatticismo elettorale in vista delle europee e di una più banale indolenza ideologica. Poi qualcuno ha deciso di alzare la testa, di non cadere nella trappola tesa da Orbán, che di fronte alla platea europea ha parlato soltanto di immigrazione, nervo scoperto del continente, mi processate perché non accolgo i migranti. Da tempo ci caschiamo tutti, in questa trappola: della Svezia al voto abbiamo visto quasi soltanto l’ascesa populista e la criminalità, quando l’80 per cento degli svedesi ha votato per partiti europeisti. Appena Steve Bannon dice due parole – ormai ne dice mille, da inaccessibile che era è diventato un prezzemolino – ci si drizzano i capelli in testa, aiuto, sbarca l’armata trumpiana in Europa, moriremo tutti. Poi se parli con i suoi sostenitori senti parecchia freddezza, l’abbraccio dell’americano è utile e viene bene in foto, ma il Movement ha bisogno d’altro per fare da traino, forse semplicemente di un gruzzoletto da distribuire: la grande rivoluzione culturale di Bannon corre il rischio di essere una campagna personale di un comunicatore, il Jim Messina dei truci.
Recuperando “i valori non negoziabili”, come li ha definiti il capogruppo del Ppe a Strasburgo Manfred Weber, che tutto avrebbe voluto tranne creare una spaccatura dentro al suo mondo, la trappola orbaniana è stata evitata. Non senza danni, naturalmente. I popolari spagnoli e i Républicains francesi si sono astenuti al voto di mercoledì, la Csu bavarese ha votato per metà con Orbán (Weber è della Csu, ha votato per aprire la procedura), la Cdu di Angela Merkel contro, ma con qualche ribellione. Dell’Italia sappiamo, Lega e FI si sono ritrovate nella difesa dell’autocrate illiberale (mentre i voti del M5s si sono rivelati utilissimi per la causa opposta). Come sia possibile rimettere insieme i cocci ancora non si sa, Parigi punta a sfruttare le divisioni per rifondare gli schieramenti, liberali di qui e illiberali di là. Così le europee sarebbero una riedizione in salsa continentale del referendum sulla Brexit: il paragone non è rassicurante, ma l’esperienza del negoziato sulla Brexit, assieme a tutti i colpi antidemocratici che arrivano da est, qualcosa ci starà pure insegnando.