Il presidente americano Donald Trump nello Studio Ovale della Casa Bianca (foto LaPresse)

Paura nella West Wing

Daniele Raineri

Tutti i giorni alla Casa Bianca c’è uno scontro durissimo tra il Troll in chief che ragiona per slogan e i suoi esperti che tentano di spiegargli faccende complicate, prima di essere cacciati. Il gran libro di Woodward

Quattro giorni fa è uscito l’ultimo libro del giornalista americano Bob Woodward, si intitola “Fear” e racconta il clima di paranoia e gli scontri brutali – al limite dell’ammutinamento – all’interno della Casa Bianca di Donald Trump. La metà degli episodi descritti nel libro avrebbe messo in ginocchio qualsiasi altra Amministrazione, ma con Trump non è così, gli scandali gli danno energia, è come quei mostri giapponesi dei film che escono rafforzati da un bagno di radiazioni. I giornali americani hanno fatto uscire alcune anticipazioni di “Fear” che sono circolate molto. Il consigliere economico Gary Cohn che ruba dalla scrivania dello Studio Ovale il messaggio ufficiale che il presidente sta per firmare e consegnare alla Corea del sud per annunciare la fine dell’accordo commerciale di libero scambio – e il furto funziona, Trump dimentica il messaggio e l’accordo resta in vigore. Il capo dello staff, il generale dei marine John Kelly, che parla del presidente e lo chiama “l’idiota” e “il fuori di testa” e dice che avrebbe voluto “infilargli una lettera di dimissioni su per il culo almeno già sei volte”. Il segretario alla Difesa Mattis che dice che “il presidente ha la capacità di comprensione di un bambino delle elementari”. L’avvocato che si dimette perché Trump è convinto di poter superare un interrogatorio con gli investigatori dell’Fbi e invece lui vede che sarebbe un disastro, finirebbe per autoincriminarsi o per “fare la figura dell’idiota”, e prima di sbattere la porta gli dice: “Sei un bugiardo del cazzo”.

 

Sui giornali americani sono uscite lunghe anticipazioni, ma in “Fear” c’è molto più materiale, e un tema ricorrente

Tutti gli uomini citati nel libro che ancora lavorano alla Casa Bianca si sono precipitati a smentire le frasi che sono state attribuite loro, ma Woodward è un giornalista meticoloso con un metodo d’indagine a prova di verifica e conserva centinaia di registrazioni audio delle interviste confidenziali che ha raccolto per scrivere “Fear” – e ha anche la copia in carta intestata del messaggio alla Corea del sud rubato dalla scrivania del presidente. Il libro è il più venduto degli ultimi anni nella categoria adulti, settecentocinquantamila copie soltanto il primo giorno ed è già arrivato all’undicesima ristampa (io l’ho trovato in una libreria minore di Brooklyn dove forse vanno più forte i testi di astrologia e dove un commesso ha intascato i miei trenta dollari in silenzio, ma in altri punti vendita ci sono attese fino a due settimane). Il comico Stephen Colbert in tv fa una gag in cui apre lentamente la copertina del libro e la regia gli mette sotto come rumore il cigolio di un cancello da film horror e un coro di risate diaboliche. Feaaarr.

 

L’ex governatore del New Jersey ed ex insider del circolo trumpiano Chris Christie dice che Steve Bannon, l’ideologo del nazionalismo che ha diretto la campagna elettorale di Trump e poi è stato cacciato dalla Casa Bianca, è la fonte di così tante delle rivelazioni da essere in pratica “il coautore di ‘Fear’”. Senz’altro Bannon è tra gli informatori di Woodward, come molti altri e in qualche pagina questi contributi sono molto trasparenti. Frasi come “Quella mattina Tizio prima dell’incontro con Trump pensava che…” si possono scrivere soltanto se hai parlato faccia a faccia con il Tizio in questione, per quanto tu possa essere bravo a ricostruire quello che succede all’interno della Casa Bianca. “Non c’è nemmeno una chance che si candiderà alle elezioni presidenziali. Zero. Meno di zero. Guarda che cazzo di vita fa, dai, non gli conviene. Non lo farà”, dice Bannon a David Bossie, un attivista repubblicano, mentre escono da un incontro con Trump nell’agosto 2010 per convincerlo a candidarsi come presidente. Poi il magnate si tirerà indietro e aspetterà altri cinque anni, ma è chiaro che fu quella la seduta in cui fu piantato il seme. Il resoconto è strepitoso. Trump non sa cosa vuole dire “pro life”, che è il termine usato per lo schieramento che si batte contro l’aborto, e continua a sbagliare la parola “populista”. “Sì, sono anche io un popularista – dice ai due – mi piace. E’ quello che sono”. Sei anni dopo vincerà le elezioni anche con l’aiuto di Bannon, che prende in mano la campagna elettorale dopo un pranzo domenicale con Trump, a meno di ottanta giorni dal voto. Alla sera va negli uffici del quartier generale della campagna elettorale che occupa un piano della Trump Tower di New York e ci trova una sola persona. Dove sono Jared e Ivanka, chiede? In vacanza su uno yacht in Croazia, assieme con Wendi Deng, ex moglie del magnate dei media Rupert Murdoch.

 

La voglia di andarsene dall’Afghanistan. La voglia, contraria, di bombardare la Siria per dire “vaffanculo” al dittatore Assad

Oltre agli insulti e alle anticipazioni lanciate dai giornali c’è molto di più e capitolo dopo capitolo il grande tema è questo: lo scontro tra un troll di Twitter che vuole semplificare tutto e abbandonarsi ai suoi impulsi base e un clan di esperti che tenta di spiegargli temi complessi. Soltanto che il troll alla fine ha il potere decisionale e non accetta spiegazioni più lunghe di una frase, vuole uno slogan ficcante, altrimenti non capisce e diventa sospettoso e aggressivo. Prendiamo le guerre commerciali, un argomento che eccita molto Trump, il quale è convinto che lo squilibrio tra le merci che l’America esporta in certi paesi e quelle che importa dagli stessi paesi sia una fregatura gigantesca per la patria e quindi vuole imporre dazi a tutto il resto del mondo per correggere lo squilibrio. Se noi compriamo molto da loro allora loro devono compensare comprando molto da noi, è il suo ragionamento, perché in caso contrario stiamo perdendo denaro. Il consigliere economico Cohn – quello che poi finisce per rubargli i documenti dalla scrivania – ha passato più di un anno a ripetergli che questo squilibrio non è per forza una cattiva cosa. A volte l’America compra cose all’estero perché gli conviene, perché ci guadagna, perché costano meno, perché con i soldi che risparmia in questo modo può fare altro. Ma Cohn doveva vedersela con Peter Navarro, un economista poco ortodosso che Trump si è portato alla Casa Bianca perché sostiene tutte le sue idee sulle guerre commerciali a partire dall’uscita dal Nafta e che chiamava Cohn “un idiota di Wall Street”. Il consigliere a volte entrava nello Studio Ovale e trovava Navarro mentre catechizzava il presidente a proposito dell’azzeramento degli accordi di libero scambio. “Se chiudete quelle cazzo di bocche e ascoltate, magari imparate qualcosa”, sbottò Cohn una volta. “Il problema è che Peter viene qui e dice tutte queste cose ma non ha nessun fatto a sostegno. Presidente, lei ha una visione dell’America alla Norman Rockwell (l’illustratore delle copertine del Sunday Evening Post che smise di lavorare negli anni Sessanta, aveva uno stile molto sognante e sentimentale). L’economia degli Stati Uniti di oggi non è più quell’economia. Più dell’ottanta per cento del nostro prodotto interno lordo viene dal settore servizi”. La percentuale reale è dell’84 per cento, ma Cohn aveva imparato a non essere troppo specifico per non far scattare il riflesso anti-competenza del suo superiore. Mandava a Trump ricerche ben fatte sui dossier economici, ma sapeva che il presidente non le leggeva perché “odia fare i compiti”. “Provi a pensare alla differenza fra quando cammina oggi per una strada di Manhattan e quando ci camminava venti o trent’anni fa”. Scelse un incrocio molto conosciuto. “Vent’anni fa agli angoli di quell’incrocio c’erano Gap, Banana Republic, J.P. Morgan e un negozio locale. Gap e Banana Republic non ci sono più o sono l’ombra di quello che erano. Il negozio locale è andato per sempre. J.P. Morgan c’è ancora. Ora ci sono uno Starbucks, un salone per la manicure e J.P. Morgan. Oggi quando cammina per Madison Avenue o per Third Avenue ci sono lavasecco, cibo, ristoranti, manicure, Starbucks. Non abbiamo più i ferramenta di mamma e papà. Non abbiamo più i negozi di vestiti di mamma e papà. Pensi a chi affitta gli spazi nella Trump Tower”. “Ho la più grande banca cinese fra i miei affittuari. E uno Starbucks. E un ristorante. Ah, e due altri ristoranti”. “Esatto: servizi. Non ci sono più persone che vendono beni. Questo è quello che l’America è oggi. Ottanta per cento servizi. Così, se spendiamo meno soldi sui beni materiali ci restano più soldi da spendere nei servizi o per fare quella cosa miracolosa che si chiama risparmiare”. Cohn quasi gridava. “L’unico momento in cui il nostro deficit commerciale con l’estero è andato giù è stato nel 2008, durante la crisi, perché l’economia era in contrazione”. Ma Trump su queste cose è irremovibile, non si schioda dal passato industriale dell’America: locomotive, industrie con ciminiere enormi, lavoratori alla catena di montaggio. “Sono andato in Pennsylvania – rispondeva il presidente – e c’erano queste grandi industrie dell’acciaio e adesso invece le città sono posti desolati e la gente non ha lavoro”. “Cento anni fa c’erano città che facevano carrozze per cavalli e anche quelle restarono senza lavoro, dovettero reinventarsi. Ci sono stati come il Colorado dove il tasso di disoccupazione è al 2,6 per cento perché continuano a reinventarsi”. Cohn ha lasciato il suo posto ad aprile.

 

Quando nel 2010 Steve Bannon chiese a Trump di candidarsi, lui non sapeva pronunciare la parola “populista”

Uno dei dossier che ha dato a Trump l’occasione per mostrare quanto detesta gli esperti che lui stesso ha portato alla Casa Bianca è la guerra in Afghanistan. “Che cazzo ci facciamo lì?”, è la sua domanda-slogan preferita durante gli incontri per decidere la strategia. “Voglio sentire qualcuno dei nostri soldati, combattenti veri, qualcuno che è là sul campo, non voi”, grida, mentre i generali ruotano gli occhi. Così il 18 luglio dell’anno scorso è stata organizzata una cena alla Casa Bianca con Trump, quattro militari in servizio in Afghanistan in alta uniforme e un po’ a disagio per le telecamere che registravano le loro parole e il consigliere per la Sicurezza nazionale H.R. McMaster. Il giorno dopo fece una scenata ai generali: “Non mi frega nulla di voi”, disse allo Stato maggiore. La linea è: “Dobbiamo capire come cazzo si fa a uscire da là. Sono corrotti totalmente. Non vale la pena combattere per loro. La Nato non fa nulla, è una zavorra. Non voglio sentire nessuno che mi dica quanto sono bravi. E’ una stronzata. Non possiamo pagare dei mercenari per fare il lavoro al posto nostro?”. Per ora tuttavia è una linea che è stata congelata dal segretario alla Difesa Jim Mattis e dal senatore Lindsey Graham, che fa spesso da consulente a Trump. “Il modo più veloce per abbandonare l’Afghanistan è perdere la guerra”, gli ha detto Mattis. “Se te ne vai fai la stessa cosa che ha fatto Obama quando ha ritirato le truppe dall’Iraq, solo che in Afghanistan la situazione è ancora peggiore. Il paese degenererà molto presto e il rischio diventerà altissimo. Il prossimo 11 settembre verrà dallo stesso posto del primo 11 settembre e tu non vuoi essere quello che l’ha permesso”, gli ha spiegato Graham. “Perdere la guerra” e “fare come Obama” sono i due argomenti che hanno fatto presa e per ora hanno allontanato la fine delle operazioni americane in Afghanistan.

 

Gary Cohn esasperato contro i protezionisti Trump e Navarro: “Chiudete quelle cazzo di bocche e ascoltate”. Si è dimesso ad aprile

Questa brama di “non fare come Obama” fa scattare il presidente contro il rais siriano Bashar el Assad. La mattina del 4 aprile mentre dalla Siria arrivano immagini di bambini soffocati dalle armi chimiche – e la figlia Ivanka si assicura che il padre le veda – Trump telefona a Mattis. “Cazzo, uccidiamolo – dice di Assad – Facciamolo. Uccidiamo un bel po’ di loro”. I ruoli sono rovesciati rispetto all’Afghanistan. Lui è quello che spinge, i generali sono quelli che moderano. Mattis fa finta di essere d’accordo al telefono, ma quando abbassa la cornetta dice al suo staff che “non faremo nulla di tutto ciò” e ordina di preparare la solita risposta: tre piani di rappresaglia, uno piccolo, uno medio e uno grande. Obama aveva accettato un accordo di smantellamento totale dell’arsenale chimico di Assad, di cui i russi si erano fatti garanti, ma è chiaro che si era fatto fregare. La discussione alla Casa Bianca diventa: dobbiamo spazzare via il quindici per cento della forza aerea siriana con 50 missili Tomahawk per dare un messaggio oppure l’ottanta per cento con 200 missili Tomahawk e in questo modo esercitare una pressione reale su Assad? Bannon, che dell’isolazionismo americano ha fatto uno dei pilastri della sua ideologia, è disperato e si dispera ancora di più perché negli incontri decisivi resta inascoltato. “Siete dei guerrafondai – dice – se sono le foto a farvi impressioni posso portarvi delle foto di bambini morti in Congo e in Guatemala, perché non lanciamo missili anche lì? State per lanciare un paio di missili cruise contro delle piste di aeroporto che dopo due giorni saranno di nuovo in funzione”. Aggiunge l’insulto massimo: “E’ una cosa clintonesca”. Ma questa volta non ha presa. Alla sera Trump è a cena con il presidente cinese Xi Jimping nel suo resort in Florida, arriva il momento del dolce, l’americano si china verso il cinese: “Stiamo per bombardare la Siria, per l’attacco con i gas”. Xi chiede all’interprete di ripetere, domanda quanti missili. “Cinquantanove”. “Bene. Se lo merita”. Dopo mezzanotte Trump telefona a Graham. “Obama è un cazzo moscio, non lo avrebbe mai fatto. Un centinaio di paesi mi hanno chiamato”. Graham pensa: probabilmente dieci paesi. “Ha fatto la cosa giusta signor presidente, non per i bambini uccisi, ma perché Assad è così spregiudicato e dice a tutto il mondo: vaffanculo. E lei ha risposto: no, vaffanculo tu. Questo è quello che lei sta dicendo ad Assad: vaffanculo”. Per giorni e settimane dopo quel raid Trump continuò a dire al suo staff che pensava non fosse stato abbastanza e a fantasticare di un attacco diretto e segreto per uccidere il rais siriano. Voleva piani, voleva opzioni – e gli Stati Uniti ne hanno a disposizione moltissime. Mattis riuscì con lentezza a portare la sua attenzione su altre faccende.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)