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La guerra commerciale di Trump ha precedenti storici inquietanti

Eugenio Cau

Le economie americana e cinese, da decenni, sono complementari e fortemente interconnesse. Raffreddare la loro relazione commerciale non è un buon presagio 

Roma. Quando, all’inizio dell’estate, il presidente americano Donald Trump minacciava di imporre dazi alle merci cinesi per 200 miliardi di dollari, somma mastodontica, tutti pensarono che fosse la solita sparata presidenziale. L’Amministrazione americana aveva già imposto 50 miliardi di tariffe, Pechino aveva risposto con una misura speculare, e i negoziati tra i rappresentanti di Washington e la squadra cinese guidata dal vicepremier Liu He erano in corso. 200 miliardi di tariffe, si diceva, metterebbero in subbuglio l’economia mondiale, danneggerebbero gravemente perfino le migliori aziende americane come Apple. Vedrete, è una panzana, Trump sta bluffando, e se non sta bluffando i suoi consiglieri più assennati lo fermeranno. Si sono dovuti ricredere tutti quando, lunedì notte, Trump ha annunciato 200 miliardi di dollari di dazi sui prodotti cinesi, che entreranno in vigore il 24 settembre e saranno inizialmente del 10 per cento, per poi aumentare al 25 il primo gennaio dell’anno prossimo. Trump ha detto di avere pronti altri 267 miliardi di nuovi dazi, e questa volta la minaccia è stata presa sul serio.

  

Alla Casa Bianca, spiegano i retroscenisti americani, Trump si è convinto che la pressione applicata dalla guerra commerciale stia spezzando la resistenza del Partito comunista cinese. L’economia cinese rallenta, anche se continua a crescere a ritmi asiatici, mentre quella americana è nella miglior forma mai vista in decenni. Il ragionamento è: ancora qualche colpo ben assestato, e Pechino cederà. Su cosa significhi “cedere” c’è dissenso: alcuni ritengono che l’obiettivo di Trump sia ottenere un trattamento più equo nei commerci, altri sostengono che la guerra commerciale sia in realtà un tentativo di contenimento della Cina, per distruggere la superpotenza rivale prima che diventi troppo forte. In effetti, se la guerra commerciale voleva mandare in confusione l’establishment cinese, l’intento è riuscito. Il Partito comunista ha faticato a organizzare una strategia davanti a una mossa così brutale. Ieri Pechino ha risposto alle tariffe con dazi su 60 miliardi di beni americani. Perché rispondere con soltanto 60 miliardi quando Trump ne ha messi 200? Perché le esportazioni americane in Cina sono limitate, e Pechino non ha più altri beni americani da colpire. Inoltre, i media asiatici hanno scritto che l’alta leadership comunista è stata colta di sorpresa dalla tenacia di Trump: gli analisti cinesi li avevano rassicurati sul fatto che il presidente avrebbe ceduto in fretta. Il Partito comunista potrebbe mettere in pratica una ritorsione “qualitativa”: anziché rispondere dollaro su dollaro con nuovi dazi potrebbe colpire le supply chain delle aziende americane in Cina, per esempio impedendo ad Apple di assemblare i suoi iPhone a Shenzhen (Cupertino è stata risparmiata all’ultimo dai dazi americani). Per ora questa mossa estrema è poco probabile: sarebbe troppo dannosa anche per l’economia cinese.

  

Ma l’effetto più pericoloso della guerra commerciale trumpiana è quello meno in vista: le economie americana e cinese, da decenni, sono complementari e fortemente interconnesse. Le supply chain delle multinazionali dall’una e dall’altra parte del Pacifico si intersecano in una rete fittissima, che costituisce il nerbo del sistema di commerci globale. Questa rete, a causa dei dazi, sta cominciando a sfilacciarsi. Sempre più aziende americane stanno sviluppando un piano B, nel caso in cui la guerra commerciale, contrariamente alle aspettative, dovesse dilungarsi per anni. Cercano alternative al mercato cinese, come spostare sedi e produzione in altre regioni dell’Asia, riducendo i legami tra America e Cina. C’è un problema immediato: nessuna altra relazione commerciale globale, attualmente, può essere proficua per l’economia del mondo quanto quella tra America e Cina. E poi c’è un problema storico: da sempre, quando gli scambi commerciali diventano più rarefatti, è per far posto allo scontro e alla guerra. 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.