In Iraq l'Opa iraniana sta sbriciolando la strategia dell'America
Teheran ottiene due buoni risultati nella (lenta) formazione del governo. Il ruolo di al Sadr, le proteste a Bassora e un pareggio
Milano. Il generale iraniano e il diplomatico americano hanno passato gran parte dell’estate nella Green Zone di Baghdad, il cuore ancora fortificato della capitale irachena che ospita gli uffici del governo. Qassem Soleimani, comandante e stratega della legione straniera iraniana – l’unità delle Guardie rivoluzionarie che agisce oltre i confini nazionali – e Brett McGurk, l’inviato speciale per l’Iraq degli Stati Uniti, architetto della vittoria contro lo Stato islamico nel paese, sono due personaggi agli antipodi umani e politici. In comune hanno soltanto un obiettivo: influenzare la lenta e difficoltosa formazione del governo iracheno.
Se le tensioni tra Iran e Stati Uniti sono antiche, da ultimo si era creata una specie di coesistenza: prima per facilitare il ritiro delle truppe degli Stati Uniti, poi per agevolare il raggiungimento di un accordo sul nucleare tra comunità internazionale e Teheran, e infine per sconfiggere il nemico comune, l’Isis. Ora che Washington ha abbandonato l’intesa nucleare, in Iraq “è la fine del tango”, scrive Ghassan Charbel su aSharq al Awsat. E l’Iran, che non punta al pareggio, sbriciola in queste settimane decenni di strategia americana nel paese. Pochi giorni fa il premier uscente Haider al Abadi, uno sciita con buoni rapporti con Washington e il candidato dell’Amministrazione Trump alla guida del governo, ha detto che si farà da parte. L’uomo su cui puntava McGurk, che ha lavorato per la creazione di una coalizione tra il partito del primo ministro – arrivato soltanto terzo al voto – i gruppi sunniti e i curdi, esce di scena. Anche l’anziano leader spirituale sciita in Iraq, l’ayatollah Ali al Sistani, ha decretato la sua nuova irrilevanza: serve un leader che non sia mai stato al potere, ha detto.
Il principale alleato di Abadi, antico rivale degli Stati Uniti, Moqtada al Sadr, signore della guerra riconvertitosi in politico populista, lo ha abbandonato. Il suo movimento, Sairoon, ha conquistato il maggior numero di seggi alle elezioni del 12 maggio. Il predicatore sciita resta il kingmaker della politica irachena: il suo allontanamento da Abadi, il candidato di Washington, non significa un’automatica svolta del clerico verso Teheran (in realtà, con diverse sfumature, tutti gli attori sciiti hanno legami con la Repubblica islamica). A indebolire la posizione del premier sostenuto dagli americani, ci sono anche le proteste che da mesi attraversano il sud. Sadr contesta ad al Abadi l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti che dall’inizio dell’estate protestano a Bassora a causa della mancanza di servizi, di acqua potabile, di elettricità, proprio come accade in Iran. Chiedono le dimissioni del primo ministro, la fine dell’influenza straniera, sia di Teheran sia di Washington, di cui è stato attaccato pochi giorni fa il consolato. Un altro colpo inflitto dall’Iran agli Stati Uniti è arrivato con il presidente del Parlamento. Il negoziato tra Sadr e l’alleanza sciita nata da quelle milizie filoiraniane che dal 2014 hanno condotto la guerra contro l’Isis, Fatah, ha portato all’elezione di uno speaker considerato vicino all’Iran: Mohammed al Halbusi, sunnita ed ex governatore della provincia di al Anbar. In Iraq, il presidente del Parlamento è sunnita, il presidente curdo e il premier, la carica più significativa, sciita. L’uscita di scena di Abadi e l’elezione di al Halbusi confermano l’opa dell’Iran sull’Iraq. Il nuovo speaker del Parlamento è contro le sanzioni americane all’Iran, che Abadi invece era pronto a imporre, e ha invitato il suo omologo iraniano, Ali Larijani. Ma una nuova stagione di instabilità con un paese ancora da ricostruire non conviene a nessuno. L’uscita di scena volontaria, martedì, di Hadi al Amiri, capo dell’alleanza fiiloiraniana Fatah, leader di milizie e candidato troppo estremo per l’America alla poltrona di primo ministro, sembra il frutto di un compromesso raggiunto tra i due rivali.