L'Amministrazione Trump sta diventando neocon
E' in atto una svolta neoconservatrice alla Casa Bianca, solo che non ce ne accorgiamo per via degli scandali. E all’Europa non dispiace
La rivista American Conservative, che nacque nel 2002 per opporsi da destra all’interventismo di George W. Bush in Iraq e in Afghanistan, si chiede se anche l’Amministrazione Trump non stia diventando neocon, come quella di Bush che reagì agli attacchi dell’11 settembre con un progetto politico-militare molto ambizioso e molto controverso per cambiare l’intero medio oriente. La rivista è molto marginale nel dibattito ma questa volta ha afferrato un punto importante. Partiamo appunto dal medio oriente, che quindici anni fa era in cima alla lista delle priorità dei pensatori neoconservatori. Il Washington Post di recente ha rivelato che la linea del governo Trump per quello che riguarda la Siria è cambiata in modo incredibile. Cinque mesi fa era “andiamocene il prima possibile”, adesso invece ha obiettivi molto vasti e a lungo termine: “Cacciare dal paese le forze iraniane e filoiraniane” e instaurare un governo che sia “non minaccioso e accettato da tutti i siriani e dalla comunità internazionale”. Se prima la scadenza del ritiro totale era “entro l’anno”, ora l’impegno è diventato a tempo indefinito: i soldati se ne andranno quando la missione sarà compiuta.
Questo compito di cacciare le forze iraniane dalla Siria non è meno difficile che cacciare i guerriglieri talebani dall’Afghanistan – come gli americani tentano di fare dall’autunno 2001. Gli iraniani sono intervenuti nella guerra civile siriana fin dal 2012, hanno mandato nel paese migliaia di consiglieri militari e il gruppo Hezbollah – che finanziano al ritmo impressionante di un miliardo di dollari l’anno – e hanno creato e schierato decine di milizie con combattenti sciiti importati dall’Iraq, dal Pakistan e da altri paesi. Dire di voler sradicare i combattenti filoiraniani dalla Siria è l’equivalente di un annuncio di guerra a tempo indeterminato.
Il secondo obiettivo è anch’esso incredibilmente ambizioso: instaurare a Damasco un governo “accettato da tutti i siriani e dalla comunità internazionale”, che sia “non minaccioso”. Sono tutte perifrasi per dire “un governo che non sia quello del rais Bashar al Assad”. Ma la cacciata di Assad è il punto principale della rivoluzione (fallita) e della guerra civile che va avanti dal 2011 e che ora si avvicina alle fasi finali. Che adesso, dopo anni di disimpegno, ci sia la volontà da parte di un’Amministrazione americana di un cambio di governo a Damasco è un cambiamento che sarebbe dovuto finire nelle prime pagine e che invece si è perso nella serie quotidiana di scandali che coinvolgono Trump. Nessuno parla di un intervento con le divisioni corazzate dei marine come quello che aprì la strada verso Baghdad nella primavera 2003 e che finì con la cattura e il processo a Saddam Hussein, ma il risultato finale sarebbe lo stesso – con la differenza che il rais siriano le armi di distruzione di massa le ha davvero grazie a una sua ammissione fatta nel luglio 2012 (e sappiamo anche grazie al libro di Woodward che Trump fantastica spesso di ordinare un’azione militare per uccidere Assad). Di questa linea politica fanno parte senza dubbio anche la contrapposizione frontale con l’Iran e con il Venezuela di Maduro – Trump ha ricevuto alcuni ufficiali venezuelani che vorrebbero eseguire un golpe contro il leader chavista.
E l’Europa cosa dice questa volta? Lo scenario è molto diverso rispetto al 2003 e la linea dura di Trump per quel che riguarda la Siria non dispiace. Francia e Germania, che quindici anni fa erano contro, adesso promettono di partecipare con i loro aerei alle operazioni americane se ci sarà da bombardare per punire l’uso di armi chimiche da parte di Assad. Del resto, se il rais siriano scatena un’ondata di profughi verso la Turchia come nel 2015 – questa volta potenzialmente milioni – potrebbe rompersi il patto fra Unione europea e Ankara e l’effetto sull’Europa potrebbe essere devastante, mentre si avvicinano le elezioni di marzo per il Parlamento di Bruxelles dove i populisti potrebbero andare molto forte.