Il Labour inglese vuole andare alle elezioni, non ribaltare la Brexit
Il vero obiettivo di Corbyn è poter dire: noi possiamo negoziare un accordo migliore di quello dei Tory al governo
Milano. Il Labour inglese di Jeremy Corbyn non appoggia un secondo referendum sulla Brexit, ma per la prima volta non lo esclude, e questo basta per strappare un sorriso al mondo contrario all’uscita dall’Unione europea. Ci si muove per piccoli passi, nel Labour che vive e sopravvive di ambiguità, e quindi ieri c’era, tra i “remainers” chi festeggiava – finalmente ci stanno ascoltando! – e chi si disperava: non ci sarà una campagna laburista contro la Brexit. I disperati hanno avuto di che disperarsi ulteriormente quando il cancelliere ombra John McDonnell, nella sua giornata sulle televisioni e sul podio da rivoluzionario in capo, ha detto: non vogliamo chiedere agli inglesi se oggi, dopo venti mesi di negoziati con Bruxelles, vogliono rimanere in Europa. Potremmo semmai chiedere, se si dovesse porre l’occasione, agli inglesi se l’accordo eventuale sulla Brexit è buono, o se ne vogliono uno nuovo, negoziato dal Labour. Per quanto suoni affascinante questo spiraglio aperto da McDonnell – e dalla mozione approvata nella notte tra domenica e lunedì – alla possibilità di poter di nuovo confrontarsi sul divorzio del secolo, è l’ennesima conferma dell’ambiguità del partito, che se mai dovesse fare una campagna elettorale sarà per dire: noi possiamo negoziare un accordo migliore di quello dei Tory al governo. Per uscire dall’Ue, non per restarci, ché su questo punto bisogna rispettare-il-voleredel-popolo.
Sembra confuso, ma non lo è. Corbyn non ha mai voluto rivedere la decisione referendaria del 2016, un po’ perché molti elettori laburisti hanno votato per la Brexit e un po’ perché lui stesso è sempre stato molto scettico nei confronti dell’Europa. Semmai pensa di essere un negoziatore migliore rispetto ai conservatori, anche se un piano alternativo a quello del governo May non è mai stato proposto nei dettagli. Lui, e i suoi, vogliono una nuova elezione, perché pensano di vincerla: se ci si arriva con un referendum che boccia il lavoro dell’attuale governo, che referendum sia. Ma la posizione dei corbyniani non è uguale a quella del People’s Vote, che è stata di nuovo sintetizzata ieri da Tony Blair sull’Evening Standard (diretto da George Osborne): “Il problema della Brexit è la Brexit”, cioè è la scelta stessa di uscire dall’Ue. Di fronte alla richiesta di People’s Vote – il movimento a favore di un nuovo referendum, che includa l’opzione di restare in Europa, cioè di dire: scusateci, abbiamo cambiato idea – Corbyn ha dovuto trovare uno dei suoi compromessi formali: a Liverpool, dove si tiene la conferenza del Labour, i sostenitori del People’s Vote, gli europeisti, sono tanti e si fanno sentire, non è possibile ignorarli. Secondo una rilevazione che circola già da prima dell’estate, l’87 per cento dei laburisti vuole che il Regno Unito resti nel mercato unico e il 78 per cento vuole un secondo referendum. I termini di questa nuova consultazione variano, ma nella mozione che sarà votata in questi giorni è stata tolta l’espressione “sui termini della Brexit”, in modo da lasciare massima libertà sul quesito dell’eventuale referendum (che è deciso a livello parlamentare). Ma che cosa pensa la leadership del partito è chiaro: non vorrebbe un altro referendum in/out. L’obiettivo semmai è arrivare a una nuova elezione, il prima possibile, ed è questo pensiero che occupa le giornate di Corbyn e McDonnell, che dedicano alla Brexit molte meno energie di quelle che ci mettono per ridefinire le regole di selezione dei candidati.
Per quanto possa sembrare strano, visto che la questione europea da due anni risucchia ogni cosa nel Regno, la debolezza del Labour non sta nella sua ambiguità sulla Brexit. O almeno, non sta soltanto in questa ambiguità. Nonostante il piglio autoritario di Corbyn, è in corso uno scontro tra i due grandi sostenitori del corbynismo, Momentum da una parte e i sindacati dall’altra, che litigano proprio sulle modalità di selezione dei candidati, perché entrambi vogliono avere la quota di potere decisionale maggiore (a farne le spese sono ovviamente i moderati, che in questo calcolo non compaiono perché sono stati massacrati da questa leadership: diventano di nuovo rilevanti nel momento in cui People’s vote non è più un fenomeno passeggero, ma un interlocutore con cui fare i conti). Nella faida tra fratelli – Momentum nasce con il sostegno dei sindacati, così come Corbyn – McDonnell sta cercando di ritagliarsi un posto a sé, e anche se non vuole insidiare esplicitamente il suo boss nella leadership del partito in realtà gli sta rubando molta visibilità: con il suo discorso di ieri, la voce roca e un’agenda fittissima di proposte, il cancelliere dello Scacchiere ombra ha definito le priorità di un governo di cui lui sarebbe perlomeno architetto. Nazionalizzazioni (di acqua, ferrovie, poste ed energia) e più potere ai dipendenti nelle aziende (con quote azionarie) in modo da ridare il potere “ai molti”. La “ricostruzione dell’Inghilterra”, lo slogan della conferenza di Liverpool, è tutta qui: l’opposizione alla Brexit è un mezzo, non un fine. Con due incognite di cui nessuno pare preoccuparsi: il referendum poi si vince? E le elezioni?