Il formidabile partito della Nike
Tutti vogliono il grande romanzo americano ed era dai tempi di Perry Mason che non si vedeva uno scontro come quello visto venerdì al Senato americano. Ma tra i pro Kavanaugh e i pro Blasey Ford c’è un terzo incomodo: il marketing
Per quel che riguarda il rule of law e il giusto processo, ci vuol altro. Lei dice emozionata che lui ubriaco ha cercato di stuprarla trentasei anni fa, nell’adolescenza, sembra Hester Prynne, l’umile strega adultera della “Lettera scarlatta” di Hawthorne, umile per come si presenta ed è, convincente al 100 per cento. Lui dice che è un boy scout, il primo della classe sempre, un maschio vergine fino all’età adulta, bevitore normale di birra, poi uomo e giurista tutto d’un pezzo, la famiglia distrutta da un circo che è una tragica disgrazia nazionale, e piagnucola e grida contro il complotto left-wing dei democratici, sembra Nixon nel 1973, e non è convincente per niente, ma lo è al 100 per cento in ragione della presunzione d’innocenza. La mia parola contro la tua. Le prove non ci sono, né il Judiciary Committee del Senato americano né l’Fbi le hanno cercate, sebbene fosse possibile interrogare una quantità di testi esterni indicati da entrambi. Il puritanesimo sa essere molto ipocrita. La procedura è tipicamente #metoo, cioè ideologica e politica, solo che lui non è un produttore o un attore o un direttore d’orchestra. Con tutto il rispetto per gli eroi dell’arte e della fiction, lui è il giurista designato a vita da Trump per cambiare definitivamente la maggioranza della Corte suprema per qualche decennio, roba forte, fortissima.
Possiamo moralizzare sui goliardismi ormonali spesso putridi della vecchia guardia liceale e universitaria, e sui barili di birra ingurgitati anche dai migliori, sull’ovvio sessismo brutale di un’epoca apparentemente tramontata, si fa per dire, o compiangere sobriamente e ammirare il coraggio delicato della testimone d’accusa che non ha niente da guadagnare ma esprime la rivolta civica femminile al suo massimo grado, nella sua massima tribuna mondiale. Possiamo godere per la serie tv, questa sì che si fa capire da sola, o disgustarci per il trash istituzionale che la irrora abbondantemente. Resta il fatto che l’azione civica, e la reazione civica, diventano il teatro della vera politica, e lo spettacolo è a suo modo grandioso, si resta bloccati senza scampo per ore davanti alla tv o nella diretta del laptop, per ore e ore.
E’ dai tempi di “Perry Mason”, altra serie che si faceva capire bene, che non vedevo un interrogatorio come quello di Rachel Miller, la procuratrice della contea di Maricopa, Arizona, assunta dai repubblicani per darsi un tono femminile (i senatori del Committee sono tutti maschi): meglio lei di Raymond Burr. Era dai tempi del grande melodramma garantista e paradossale di Billy Wilder, “Witness for the prosecution”, che non godevo altrettanto alla vista di tanti Charles Laughton e Tyrone Power in scena. Tutti vogliono sempre il grande romanzo americano, e lui è là, gratuito, sulla Cnn.
La nevrastenia contemporanea, nel tempo in cui i deboli accidiosi festeggiano il deficit in nome del popolo che poi lo pagherà, nel tempo in cui il più forte detta la sua legge e ammutolisce quasi un secolo di storia della diplomazia e dell’arte del possibile politico, tempo di imposture grandeggianti, tempo di nervous states, delle emozioni e dei sentimenti comunicati senza corpi intermedi, linguaggi intermedi, competenze medie, e ragione di stato o di partito, risalgono le quotazioni dell’azione civica. Ai due partiti, pro Blasey Ford e pro Kavanaugh, si aggiunge un terzo formidabile partito, il partito della Nike.
Avrete presente lo sneaker e gli altri capi tecnici, spero. Ecco. Non deve passare sotto silenzio quest’altra dimensione della politica. Vince il marketing? Vincono gli algoritmi personalizzati? E allora noi della multinazionale delle scarpette, che festeggiamo i trent’anni con una campagna di spot e .com intitolata a un molto obamiano “Just Do It”, noi prendiamo Colin Kaepernick e in un clic ne facciamo il nuovo Che Guevara algoritmico. Kaepernick è quel bravo ragazzo nero, capigliatura folta e ruvida stile Black Panthers, una faccia meravigliosa per malinconia e tenacia ibridate, sovrastata da occhi intelligenti e divinamente umani, che giocava nei 49ers di San Francisco, squadra del cuore e da SuperBowl. Un giorno del 2016, non per il #metoo ma per il #BlackLivesMatter, Colin decide di inginocchiarsi in campo durante l’inno nazionale americano: è il suo modo di dire che la polizia deve andarci piano con i neri disarmati. In molti lo seguiranno, con scandalo benpensante vasto e rancoroso. Trump li dannerà in nome di un patriottismo meno delicato e compassionevole del loro (si sono inginocchiati, mica facevano il gesto dell’ombrello), e chiederà alla potente National Football League di licenziarli in tronco.
Kaepernick effettivamente perde ogni scrittura, e rimane a spasso, nonostante un notevole talento e una notorietà alla Michael Jordan. Farà causa alla Nfl, ma chissà come finirà. Intanto però è titolare di un contratto con la Nike, sponsorizzazione. La ditta Technosport ci perde, con lui in panchina. E’ tentata di mandarlo a spasso senza nemmeno le Nike. Per quanto sia un gigante dell’immaginario giovanile urbano, e un colosso commerciale e di marketing, è dura anche per un campione di incassi mollare una bella pagnotta all’ex 49ers senza averne in cambio la resa produttiva prevista. Ma un genio tra di loro capisce che si può fare l’opposto, valorizzare come un eroe dell’autenticità umana, una specie di guerrillero heroico, il giovane atleta. In formato gigante per manifesti alti come un palazzo di San Francisco o di New York, e poi con uno spot e un video, Nike promuove un nuovo mito dell’azione civica.
Noi ci prendiamo le nostre responsabilità, sembrano voler dire mentre sono percorsi dalla paura di affondare nell’America di Trump e delle sue retoriche bizzarre ma solide. Invece è un successo bestiale. In poco tempo aumentano gli incassi di 9 miliardi di dollari. In Borsa vedono le stelle tra le palle del Toro. La foto ravvicinata dello sguardo di Kaepernick, con la scritta: “Credi in qualcosa. Anche se vuol dire sacrificare ogni cosa”, diventa un manifesto ideologico possente, inarrivabile, che sfugge a ogni reprimenda del buon senso patriottico andante. Nel grande romanzo eccetera c’è posto anche per un exploit commerciale da urlo, la sponsorizzazione del coraggio individuale, issato sulle ginocchia piegate di un nero il cui sguardo, cinquant’anni dopo, rimpiazza il volto del Che disteso nel suo letto di morte mentre “faceva il dovere di ogni rivoluzionario”. Il partito Nike è un fenomeno tipicamente americano, e unico, ma è l’unico messaggio dei famosi mercati aperti che finora sia arrivato alla ultima destinazione conosciuta.