Il maccartismo sessuale che colpisce l'America
Tre bibbie liberal si dimostrano poco liberali sulle opinioni diverse. E cento scrittori difendono Buruma, cacciato dal New York Review of Books per aver ospitato una opinione critica del #metoo
Roma. Sette anni fa Robert B. Silvers, fondatore di quella cittadella della cultura che è stata la New York Review of Books, scrisse su quella rivista un articolo in cui si domandava se il caso Dominique Strauss-Kahn, politico socialista francese accusato di aver assaltato sessualmente una cameriera in un hotel di Manhattan, non fosse un complotto. Se Silvers lo avesse scritto oggi quell’articolo la sua testa avrebbe fatto la fine di quella di Ian Buruma, cacciato da direttore della stessa New York Review of Books per aver ospitato una opinione critica del #metoo. Perché sette anni dopo, come ha scritto Brendan O’Neill sulla rivista inglese Spiked, il giornalismo liberal americano è travolto da una ondata di “maccartismo sessuale”.
Dalla ricca platea di firme illustri della New York Review of Books in cento, fra cui Joyce Carol Oates e Ian McEwan, si sono fatti avanti sul caso Buruma con una lettera di protesta contro la proprietà della rivista. I collaboratori affermano che “dati i principi del dibattito intellettuale aperto su cui è stato fondata la New York Review of Books, il licenziamento (di Buruma, ndr) in queste circostanze ci colpisce come un abbandono della missione centrale della rivista, che è la libera esplorazione delle idee”. Ma non solo. Sul New York Times, Laura Kipnis spiega che “Silvers e la sua codirettrice, Barbara Epstein, divennero delle leggende assumendosi dei rischi editoriali; Buruma è diventato un ex direttore assumendosi dei rischi editoriali”. Qualcosa di molto significativo è stato perso, spiega Kipnis. “Una conseguenza della partenza di Buruma sarà un nuovo meccanismo di tutela che non sapremo nemmeno essere in atto, la tutela dai rischi intellettuali”. Il Wall Street Journal ha notato come la tripletta delle ultime settimane segna, forse, la “morte” del giornalismo liberal. “E’ la vergognosa stagione del giornalismo americano”, così la definisce Christopher Finan, direttore della Coalizione nazionale contro la censura. Non solo Buruma.
Ad agosto il New Yorker ha annullato un incontro pubblico al suo festival annuale tra il direttore, David Remnick, e l’ex assistente della Casa Bianca Steve Bannon. Un’altra rivista principe della cultura liberal, The Nation, è entrata in crisi per aver osato pubblicare “How-To”, una poesia di Anders Carlson-Wee. “Siamo dispiaciuti per il dolore che abbiamo causato alle comunità colpite da questo poema”, hanno scritto i capi della sezione poesia della rivista, Stephanie Burt e Carmen Giménez Smith. Nella poesia, Carlson-Wee si immedesimava con gli emarginati che fanno l’elemosina, non usando il termine “senzatetto” ma “barbone”, e non “disabile” ma “zoppo”. Così, per la prima volta in 150 anni quella rivista progressista ha chiesto scusa per aver pubblicato dei versi. Mesi fa l’Atlantic, mensile liberal di rango, aveva fatto notizia per aver assunto Kevin Williamson, scrittore conservatore di talento, salvo licenziarlo dopo un solo articolo per le sue idee poco in regola col mainstream.
Ma il commento più originale non arriva dai salotti dell’Upper West Side, ma dall’India e dal giornalista Madhavankutty Pillai, che sul magazine Open ha appena scritto: “Che una pubblicazione vista in tutto il mondo come un faro del liberalismo punisca sommariamente l’avvio di un dibattito ci mostra la crisi del liberalismo. Se tutte le discussioni sono vietate, allora ciò che rimane sono soltanto degli echi”. E dentro a questa cultura della camera dell’eco c’è finito qualcosa di molto più importante e prezioso delle puerili sorti del #metoo. Il dissenso e la libertà di parola in una società conformista.