Per vincere il referendum, la Macedonia sfrutta l'amore per l'Europa
Il quesito è: “Sei favorevole a un’adesione all’Ue e alla Nato attraverso l’accettazione dell’accordo tra Macedonia e Grecia?”
Milano. Oggi in Macedonia si vota in un referendum “onomastico” che potrebbe far avanzare di una casella la risoluzione del contenzioso tra Skopje e Atene sulla denominazione ufficiale dello stato ex jugoslavo. E’ una lite che dura da 27 anni e che si può riassumere in poco più di 27 parole: Skopje non vuole rinunciare al nome “Macedonia”, in cui riconosce la propria identità, e Atene non vuole che i vicini settentrionali scippino, proprio attraverso il nome “Macedonia”, una parte di quell’eredità dell’antica Grecia che della Grecia moderna è il bene più prezioso. In conseguenza di questa disputa, Atene ha posto il veto sul possibile ingresso di Skopje in varie organizzazioni internazionali. Nel giugno scorso, il premier ellenico, Alexis Tsipras, e il collega macedone, Zoran Zaev, si sono finalmente accordati sul nome “Repubblica della Macedonia del nord”. I cittadini macedoni sono chiamati a ratificare l’accordo con un referendum; probabile la vittoria del “sì”, più incerto il raggiungimento del quorum del 50 per cento. Poi, anche il Parlamento di Atene dovrebbe ratificare la decisione; Tsipras non potrà contare sull’appoggio dei suoi alleati di governo della destra nazionalista, i Greci indipendenti, ma non dovrebbe essergli impossibile trovare i voti necessari fra i centristi.
Al di là dei possibili avanzamenti dell’accordo tra i due capricciosi litiganti, colpisce la formulazione del quesito referendario sottoposto agli elettori macedoni: “Lei è favorevole a un’adesione all’Unione europea e alla Nato attraverso l’accettazione dell’accordo tra Macedonia e Grecia?”. Non c’è nessun riferimento al nuovo nome “Repubblica della Macedonia del nord”, se non attraverso l’allusione indiretta a un “accordo” con Atene: tanta pudicizia si spiega con la volontà di non turbare con formulazioni esplicite chi ha la tentazione di votare “sì”, ma non è proprio convintissimo. Ma quel che stupisce di più è la scelta del “soave licor” con cui addolcire la pillola. Nell’era dell’antieuropeismo sovranista, dell’introflessione frontierofila, del tiro populista al piccione brusselese, sembra incredibile che l’esca per attrarre gli elettori verso un “sì” referendario possa essere l’ adesione all’Ue, peraltro del tutto incerta: se l’ingresso nella Nato, una volta rimosso il veto greco, potrebbe avere la celerità di un detto-fatto, per l’accettazione della Macedonia nell’Ue, anche se restylizzata in “Macedonia del nord”, potrebbero volerci comunque decenni. Eppure, non c’è molto da stupirsi: nei Balcani l’Europa – sì, proprio quell’Europa lì con le dodici stelline gialle in campo blu – è vista ancora come un modello aspirazionale e come qualcosa di appetibile. Il perché lo si capisce rileggendo l’intervento del premier albanese Edi Rama, apparso sul Times durante la campagna elettorale sulla Brexit: “Nella nostra regione, il desiderio di entrare nell’Ue ha reso possibile l’impossibile. E’ per questo desiderio che (…) siamo entrati in una nuova era di pace e di cooperazione. Ed è per questo desiderio che sono andato a Belgrado nel 2014, nella prima visita di un premier albanese in 68 anni. Ed è questo desiderio che ha portato a Tirana Aleksandar Vucic, in quella che è stata la prima visita assoluta di un premier serbo”. Proprio Vucic, qualche settimana fa, ha detto che la Serbia pretende da Bruxelles un ingresso nell’Ue in cambio di un eventuale accordo con il Kosovo e della normalizzazione delle relazioni. Da lontano l’Ue non sembra così male. Ma da dentro molti la vogliono distruggere. Che sia una questione di presbiopia?