Il diavolo veste Bannon
A tu per tu con il grande consigliere dei populisti mondiali, un rivoluzionario di professione che vede nel governo italiano quella convergenza inedita ma inevitabile (per lui) che affosserà i partiti d’establishment. Ma fino a dove si spingerà questa rivolta? Ecco la risposta
Gli americani sembrano sempre inoffensivi. Specie quando li immergi nel calore cinico e irresponsabile di un posto come Roma. E’ una questione di espressione del viso, forse anche un po’ di abbigliamento. Eppure, quello che mi sta porgendo un muffin rimediato chissà come, quando ancora non ho fatto in tempo a sedermi sul divano, dicono sia il diavolo. Darth Vader, lo hanno soprannominato. O anche il Grande Manipolatore, secondo Time Magazine. L’operatore politico più pericoloso degli Stati Uniti, dixit Bloomberg News. E tutto questo ancor prima che desse un contributo decisivo all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, l’otto novembre di due anni fa.
Steve Bannon è a Roma molto spesso, dalla scorsa primavera. Sarà la quarta o la quinta volta che ci viene nell’arco di pochi mesi. Da queste parti, si sa, il rischio marziano di Flaiano è sempre in agguato. Sbarchi la prima volta e ti accolgono come un padreterno, si ferma il traffico e la gente ti porta in trionfo, poi dopo un po’ tutti si abituano, come si sono abituati a qualunque cosa in duemila anni, e finisci apostrofato dai monelli per strada: “a marzià…”.
Bannon è un po’ il Trotsky della rivoluzione populista, ambisce a spronare le masse popolari europee contro il partito di Davos
Per ora Bannon è ancora in stato di grazia. Negli ultimi giorni ha tenuto banco ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, e ha incontrato a lungo sia Matteo Salvini che Luigi Di Maio (ma Di Maio ha smentito), per i quali professa un’ammirazione incondizionata. Nei momenti di pausa si ristora nella suite dell’Hotel de Russie dove ha accettato di ricevermi. E in fondo ci sta, l’Hotel de Russie. Non tanto per ragioni contemporanee di oligarchi e di troll factories. Quanto perché Bannon è un po’ il Trotsky della rivoluzione populista, un mix di ideologo e di uomo d’azione che ambisce con il suo Movement a spronare le masse popolari europee alla rivolta contro quello che lui definisce il partito di Davos.
Quando dici che hai appuntamento con Bannon, i cognoscenti della scena romana, quelli ai quali non la si fa, perché hanno sempre informazioni di prima mano che arrivano da chissà dove (in genere Dagospia), scuotono la testa perplessi e ti propinano una delle due vulgate disponibili. La prima, scettica, parla di un personaggio sopravvalutato, uno che oltreoceano non conta più nulla e che ci filiamo solo noi perché siamo provinciali, il solito yankee che pensa di aver trovato la sua America qui da noi, sulla scia di Dan Peterson e di Alan Friedman. La seconda versione, all’opposto, prevede che Bannon sia un emissario della Cia, potentissimo e oscuro personaggio dotato di mezzi illimitati che porta avanti con determinazione spietata il disegno di distruggere l’Unione europea.
Nella realtà, Bannon non è né l’una né l’altra cosa. Né una mosca cocchiera vagamente truffaldina, né l’agente di chissà quali poteri occulti, ma piuttosto quello che un tempo si sarebbe definito un rivoluzionario di professione. Un prodotto grezzo della working class americana che, a furia di talento e di ambizione, ha attraversato tutti i luoghi simbolici del potere americano, l’esercito, Virginia Tech, Georgetown, la Harvard Business School, Goldman Sachs, poi Hollywood e finalmente Washington, senza mai dipartirsi dalla sua rabbia originaria, ma anzi accumulando dappertutto munizioni per mettere a ferro e fuoco il mondo delle élite, quella che lui considera la casta blindata dei traditori del Popolo.
A Hollywood, si era lanciato nella produzione di documentari kitsch sullo spirito americano e lo scontro di civiltà
Sulla scorta del suo maestro Andrew Breitbart, fondatore dell’omonimo sito di contro-informazione, Bannon è stato uno dei primi tra i nuovi populisti a capire che “politics is downstream from culture”, la politica deriva dalla cultura. La sua è stata, fin dall’inizio, una battaglia per strappare all’intellighenzia liberal lo scettro dell’egemonia culturale. Per questo, quand’era a Hollywood, si è lanciato nella produzione di documentari kitschissimi, infarciti di citazioni filosofiche e di melodie wagneriane, sullo spirito americano, sullo scontro di civiltà, sulle generazioni che alternandosi modellano la storia e determinano il corso degli eventi. E per lo stesso motivo, dopo la morte del fondatore, ha trasformato Breitbart News nel punto di raccolta della destra alternativa americana, una variegata combriccola di nazionalisti, complottisti, millenaristi e semplici incazzati, tutti ferocemente determinati a imporre un punto di vista diverso sulle principali questioni al centro del dibattito: l’immigrazione, il libero scambio, il ruolo delle minoranze e i diritti civili. Aprendo una redazione in Texas per seguire da vicino il fenomeno dell’immigrazione clandestina, finanziando think tank destinati allo studio delle malefatte dell’establishment in generale e della famiglia Clinton in particolare, mobilitando blogger e troll per dominare il dibattito sui social network, partecipando al lancio ed entrando nel board di una società di Big Data applicati alla politica, Cambridge Analytica, che diventerà l’oggetto di uno scandalo globale qualche anno dopo, Bannon si è trasformato in una specie di uomo-orchestra del populismo a stelle e strisce. Per questo, quando il ciclone Trump si è abbattuto sulle primarie repubblicane del 2016, Steve era lì, pronto a diventare l’ispiratore occulto, e poi lo stratega ufficiale della campagna più trasgressiva della storia politica americana.
Poi, certo, dopo le elezioni, ha perso un po’ il controllo. Installato nello studio del consigliere politico del presidente, anziché limitarsi a fare il suo lavoro, non ha resistito alla tentazione di mettersi in scena. E’ sempre una pessima idea per uno stratega quella di raccontare le proprie visioni ai giornali anziché sussurrarle all’orecchio del Principe, figuriamoci quando si lavora per il simbolo vivente dell’Era del Narcisismo. E infatti, nel giro di un anno, Bannon si è ritrovato fuori dalla Casa Bianca, con il capo del mondo libero che twittava cose del tipo “Steve il bavoso ha pianto e mi ha supplicato quando l’ho licenziato. Ora è stato mollato come un cane praticamente da tutti. Che peccato!” (tweet del 6 gennaio 2018).
Nel circuito dei populisti sovranisti, però, non è che ne girino tanti con il cervello, l’esperienza e le relazioni di Bannon. Così, nell’arco di qualche mese, gli si è spalancata di fronte una prospettiva ancora più ambiziosa: “Quel che voglio – ha dichiarato a marzo al corrispondente romano del New York Times – è costruire un’infrastruttura globale per il movimento populista globale. L’ho capito quando Marine Le Pen mi ha invitato al congresso del suo partito a Lille. ‘Cosa vuoi che dica’, le ho chiesto. ‘Dicci che non siamo soli’, ha risposto lei”. E’ stato quello il momento in cui Bannon si è reso conto che esisteva lo spazio per un ossimoro, l’Internazionale dei nazionalisti, una piattaforma concepita per mettere in comune esperienze, idee e risorse tra i diversi movimenti attivi in Europa e in America. “Siamo dalla parte giusta della Storia. L’ha detto perfino George Soros, qualche tempo fa, questi sono tempi rivoluzionari…”.
L’epicentro della scossa, secondo Bannon, ora è l’Italia. Ecco perché si trova qui, seduto di fronte a me nella suite dell’Hotel de Russie, mentre intorno a noi si agitano i suoi pretoriani, l’ex braccio destro di Nigel Farage, Raheem Kassam, il fondatore dell’Istituto Dignitatis Humanae Benjamin Harnwell, il nipote in tuta da ginnastica Sean Bannon e un curioso ariano che sembra il frutto di uno di quegli esperimenti di eugenetica svedesi degli anni Trenta, tutti forsennatamente impegnati nel produrre il clima saturo di testosterone che contraddistingue i QG di tutte le rivoluzioni, figuriamoci quelle nazional-populiste.
Per rompere il ghiaccio, dico a Bannon che siamo molto onorati che abbia definito Roma come la capitale della politica mondiale (anche se è un onore che diversi di noi si sarebbero risparmiati più che volentieri), ma che non è da oggi che l’Italia è la Silicon Valley del populismo. Abbiamo avuto una classe dirigente obliterata all’inizio degli anni Novanta, tutte le forme possibili di rivolta anticasta, Berlusconi vent’anni prima di Trump, la Lega stessa, pupilla degli occhi di Bannon, al potere per anni. E non è che tutto questo abbia dato risultati poi così esaltanti. Perché mai le cose dovrebbero andar meglio a questo giro?
“Certo, per alcuni versi Berlusconi è stato Trump prima di Trump”, risponde. E questo, detto da lui, è già un bel riconoscimento. “Ora però le cose stanno diversamente. Per la prima volta, i due terzi degli elettori italiani sostengono attivamente un movimento populista che ha saputo fare tre cose. Ha unito il sud e il nord. Ha combinato la destra e la sinistra. Ha messo insieme i populisti e i nazionalisti. In pratica qui è riuscito quello che a noi negli Stati Uniti non è riuscito, unire Donald Trump e Bernie Sanders. Per questa ragione dico che Roma è di nuovo il centro dell’universo politico. In Italia è in gioco la natura stessa della sovranità, perché dall’esito di questa esperienza dipendono le sorti della rivolta dei popoli che vogliono riprendersi il potere dalle mani delle élite globali che gliel’hanno sottratto”.
In proposito mi torna in mente che Bannon ha definito negli ultimi giorni il caso Savona come “uno dei fatti più importanti del XXI secolo”. Non sarà un po’ eccessivo? “E’ stato un simbolo. Provi a pensare, due partiti che hanno vinto le elezioni perché sono il frutto della rivolta popolare contro l’establishment, lavorano per mesi su un accordo di governo, arrivano all’indicazione di un ministro, e in un pomeriggio la Banca centrale europea pensa di poter spazzare via tutto imponendo ancora una volta un tecnocrate. E’ normale che la gente si sia ribellata e abbia mandato un messaggio molto forte alle istituzioni centrali: d’ora in poi non sarete più voi a decidere come dobbiamo governare il nostro paese”.
Ok, ma fin dove può spingersi questa rivolta? In fondo si sa che il nostro problema, più che le istituzioni europee è il debito, abbiamo pur sempre bisogno di finanziarlo. “E’ questa mentalità il problema. L’Italia è la sesta o settima potenza industriale del mondo, un paese ricco. La gente non vi presta i soldi per fare la carità, si aspettano dei ritorni. Per questo penso che sia giusta la linea di Salvini e Di Maio: non dovreste andare dai banchieri centrali con il cappello in mano. L’Italia ha il potenziale per essere un’economia dinamica, in forte crescita. Ecco perché ci vuole la flat tax, per creare opportunità e dare una ragione ai ragazzi che scappano all’estero per rimanere. Bisogna cambiare la mentalità. Il partito di Davos e le élite finanziarie sono quelle che hanno causato la crisi finanziaria del 2008, creando armi di distruzione economica di massa, delle quali non padroneggiavano neppure la complessità. Da allora i banchieri centrali hanno inondato il mondo di liquidità per salvare i loro simili, ma non hanno fatto nulla per la gente normale. Ecco perché è arrivato il momento di riprendere in mano il vostro destino”.
Fino al punto di uscire dall’euro? “Penso che questa sia una conversazione per un altro giorno”. E se invece volessimo farla adesso? In fondo stanno scrivendo la legge di bilancio in queste ore. “A mio avviso dovrete chiedervi nei prossimi anni quale possa essere la moneta migliore per l’Italia, per la vostra economia con le sue caratteristiche. E’ un dibattito necessario, ma non è all’ordine del giorno. Oggi si parla di flat tax, di reddito di cittadinanza…”. Appunto, per farli bisogna sforare i parametri europei oppure no? Qui Bannon si spazientisce un po’. “L’Italia è l’unico paese al mondo dove la gente comune parla dello spread! Ma sono i banchieri centrali che vi hanno messo in testa un meme, per farvi il lavaggio del cervello! Io vengo da Goldman Sachs, sono un capitalista, non dico che si debba essere irresponsabili. Ma chi è stato irresponsabile e chi ha avuto un bail-out dopo la crisi finanziaria? Loro, i banchieri che l’hanno provocata! Il peso delle tasse per le persone normali in Italia è schiacciante. E ora avete un sistema di welfare che deve sopportare i costi dell’immigrazione di massa, voluta dalle stesse élite per tenere basso il costo del lavoro! Sa perché gli italiani sono arrabbiati? Perché sono razionali. Questa rivolta ha una base perfettamente razionale. Ci vorranno molti anni per uscire dal cratere provocato dall’implosione della crisi finanziaria del 2008. Almeno con gente come la Lega e i Cinque stelle ora avete forze politiche che considerano il popolo come la loro base, e non i tecnocrati di Bruxelles”.
Sarà, ma in materia di economia hanno due visioni diametralmente opposte, il che mi porta alla domanda che tiene banco sulle colonne del Foglio già da qualche tempo. Di cos’è fatto, per Bannon, il futuro? Di un fronte populista che si divide in due, la destra dei Trump e dei Salvini contro la sinistra dei Sanders e dei grillini? O di un bipolarismo tra populisti uniti da un lato e globalisti o come li vuol chiamare lui dall’altro? “Qui torniamo alla ragione per la quale l’Italia è il centro di tutto. Da voi i populisti di destra e quelli di sinistra hanno accettato di mettere da parte le loro differenze e di unirsi per restituire il potere al popolo italiano contro i poteri stranieri che l’avevano usurpato. Se funziona in Italia, può funzionare dappertutto, per questo siete il futuro della politica mondiale. Il modello è questo, al cento per cento: sovranisti contro globalisti”.
Dopo mezz’ora di conversazione, siamo finalmente d’accordo su un punto. Il cleavage principale oggi è questo, apertura versus chiusura, e non cancella ma rende certo molto meno rilevante il vecchio schema destra/sinistra al quale vorrebbero riportarci i fan di Fico e le raffinate elucubrazioni sulla romanizzazione dei barbari.
Sull’onda di questa inattesa sintonia, provo a mettere sul tavolo un’altra questione sulla quale mi aspetto qualche soddisfazione. Lo sa Bannon che se la Lega è in fondo un partito nazionalista come ne esistono altri un po’ dappertutto, il Movimento 5 stelle è un ectoplasma (non gliela dico così, mi trattengo e dico “partito”) che vuole la fine della democrazia rappresentativa e l’instaurazione di una specie di democrazia diretta digitale? Cosa ne pensa?
“Credo molto nella democrazia rappresentativa”, risponde. “Quel che mi piace nei Cinque stelle però è il coinvolgimento continuo. I media non hanno capito ciò che è accaduto durante la vostra campagna elettorale. Quel che è successo è che due movimenti basati sulla rete, la Lega e il M5s, hanno coinvolto i giovani in un modo che non vedevo da tempo, che non ho visto neppure nella campagna di Trump. E li hanno coinvolti sulla base di grandi idee. Tutti quelli che pensano che i millennial siano refrattari alla politica dovrebbero guardare le elezioni italiane del 2018. I concetti di cittadinanza, di quale debba essere la relazione dell’individuo con lo stato, di cosa significhi sovranità, del ruolo della moneta, sono stati al centro della campagna elettorale di marzo e i media tradizionali non se ne sono neppure accorti. Ecco quel che mi piace dei Cinque stelle, questo modo di usare internet per coinvolgere le persone. Se poi un giorno potrà esserci uno sbocco verso la democrazia diretta non saprei dirlo, lo vedremo nel corso del tempo. Gli svizzeri ce l’hanno e si trovano bene, ma è ancora da dimostrare che si possa applicare quel modello a realtà più grandi e meno omogenee”.
Non mi ero accorto che la nostra campagna elettorale si fosse svolta su un piano così elevato, ma dev’essere perché leggo troppi giornali. Intanto Bannon sta proseguendo: “Quel che serve è la sussidiarietà, portare il potere al livello più vicino alle persone. Per questo il movimento populista è così importante, ed è su questo piano che si svolge la sfida contro i globalisti. In questi giorni sono successe due cose molto importanti. Donald Trump ha fatto un discorso fondamentale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite”. Quello in cui mezzo mondo gli ha riso in faccia? Sì, proprio quello. “Se si mettono insieme il discorso di Varsavia dello scorso agosto con l’intervento all’Onu si ha l’inizio di una visione molto potente. L’idea che la sovranità degli stati nazionali debba essere il collante di tutti questi movimenti populisti che combattono i globalisti. In più di questo, la regina d’Europa, Merkel I, è stata sconfessata dal suo proprio partito (nella scelta del nuovo capogruppo Cdu-Csu al Bundestag)”.
“Se c’è una cosa che ammiro di Merkel e Macron è che non nascondono il loro programma. E’ importante che la gente capisca: non c’è alcun complotto! Tutto viene detto apertamente, alla luce del sole! Macron ha pronunciato un discorso un anno fa nel quale ha tratto le logiche conseguenze del progetto europeo, della visione di Jean Monnet. Molto in dettaglio e in modo del tutto coerente. E’ un disegno fatto di ulteriore integrazione politica, di ulteriore integrazione commerciale, di ulteriore integrazione dei mercati di capitali. In pratica si tratta degli Stati Uniti d’Europa, dove l’Italia diventa la Carolina del sud rispetto alla Francia che è la Carolina del nord, ok? Ora, se credi in questo, e ti piace, vuol dire che credi nel progetto di Macron. Salvini, Orbán, Marine Le Pen e le altre voci del movimento populista nazionalista dicono di no. Lo scontro è tutto qui, tra quelli che in Europa pensano che gli stati nazionali siano un ostacolo da superare e quelli che pensano che siano un gioiello da preservare”.
“In Italia Salvini e Di Maio si sono uniti per questa ragione. Hanno accettato di mettere da parte le loro differenze per combattere in favore della sovranità del popolo italiano. E mi lasci dire una cosa, non troverà da nessun’altra parte due leader politici che, dopo aver vinto una campagna elettorale raccogliendo così tanto consenso, accettano di fare un passo indietro, affidando la presidenza del Consiglio a un terzo, Giuseppe Conte, e permettendogli di andare al G7, alle Nazioni Unite e di sedersi nello studio ovale con Trump. In più dopo hanno fatto un’altra cosa che nessuno vuole mai fare, si sono presi la responsabilità delle aree più critiche del governo: l’immigrazione e la sicurezza per Salvini, e l’industria e il lavoro per Di Maio. La Bbc, la Cnn, il Guardian sono tutti qui col microscopio a osservare ciascuna delle loro mosse per dimostrare che non sanno quello che fanno. Cercano qualunque indizio per dimostrare che in Italia al potere c’è solo un gruppo di dilettanti allo sbaraglio. Ecco perché l’Italia è così importante. Ed è per questa ragione che Salvini non è più solo una figura europea, ma sta diventando uno dei leader del movimento sovranista globale”.
Provo a scacciare dalla mente l’immagine inquietante di Matteo Salvini grande timoniere del pianeta chiedendo a Bannon se ha letto il libro di Moisés Naím sulla fine del potere. La tesi di base è che oggi sia più facile, per un outsider, acquisire il potere, ma anche più facile perderlo: un fenomeno che ha agevolato i populisti nella loro ascesa, ma che potrebbe anche precipitarne la fine una volta arrivati al governo. “L’antidoto è l’azione”, dice Bannon. “E’ quello che vuole la gente. Finora le élite gli hanno offerto solo la gestione del declino. Pensi al discorso inaugurale di Trump, invece. Il punto fondamentale era: ora basta, è il momento di agire. E’ la stessa cosa che Salvini ha fatto con l’immigrazione. Agire, chiudere i porti. Non so se sia più facile oggi acquisire il potere, certo ci sono strumenti che prima non c’erano, come internet. Ma restare al potere dipende da un’unica cosa: l’azione. Per prendere il potere servono le parole, ma per tenerlo bisogna agire”.
“Sa qual è la frustrazione delle persone comuni che cercano di mantenere una famiglia lavorando e facendo sforzi enormi tutti i giorni? Vedere tutte queste forze economiche e questi giochi di potere al di sopra di loro. La forza dei populisti è dire di no. Tutte queste forze non sono al di là del vostro controllo, dipendono dalla volontà umana. Si può agire per indirizzarle. Salvini lo ha fatto per l’immigrazione, Orbán per il controllo delle frontiere, Trump lo fa sulla politica commerciale e sullo scontro con la Cina. Le élite hanno detto alla gente che loro sapevano cosa fare e si sono limitate a gestire il declino e sa perché lo hanno fatto? Perché nella gestione del declino, il partito di Davos se la cava benissimo. C’è una statistica uscita ieri che dice che un decimo dell’1 per cento della popolazione mondiale controlla più beni del 99 per cento della popolazione mondiale. Si rende conto, un decimo dell’1 per cento! Non si può continuare così”.
A questo punto mi viene in mente di aver letto che Bannon è un grande ammiratore dei Gracchi. Ma quelli volevano togliere la terra ai ricchi per distribuirla ai poveri. Non proprio la politica fiscale dei Trump e dei Salvini. “Quella è stata una mia sconfitta nello studio ovale. Io volevo un’aliquota del 44 per cento per chiunque guadagni più di cinque milioni di dollari e coloro che mi hanno bloccato sono due progressisti, Gary Cohn e Steve Mnuchin, due democratici che credono nel gocciolamento dei redditi dall’alto al basso. Io penso che sia ora di dare una mano all’uomo della strada, sulle cui spalle poggia il peso di tutto il sistema. E’ da lì che viene la rabbia, in Italia e in Ungheria come negli Stati Uniti. E’ lui la spina dorsale della società civile, lui che tira su i figli, fa l’allenatore della squadra di calcio, va in chiesa, fa il suo lavoro, paga le tasse ed è un buon cittadino. A causa della crisi finanziaria e del fatto che i banchieri si sono salvati con i tassi d’interesse sotto zero, tutto questo è stato messo in discussione. Hanno minato i fondamenti del giudeo-cristianesimo: la famiglia modesta che fa il suo dovere, fa il suo lavoro e così facendo fa crescere la società. Prima funzionava così: uno risparmiava, metteva insieme i soldi per comprare una casa, ma oggi non vale più. Oggi se risparmi sei un idiota perché risparmiare costa soldi sul conto in banca. Il concetto stesso del buon padre di famiglia è stato distrutto e con lui la base della società civile”.
“Questa è anche la ragione per la quale sono convinto che convertiremo i millennial alla causa populista, non solo in Italia ma dappertutto. Perché sono vestiti meglio e hanno lo smartphone in tasca, ma per il resto sono servi della gleba, esattamente come nella Russia dell’ottocento. Un ragazzo di dodici anni oggi ha più informazioni dell’imperatore Adriano, ma la sua prospettiva di vita è quella di un proletario. Non possiede nulla e non possederà mai nulla. L’intera gig-economy è basata sul passare da un lavoretto all’altro, senza una carriera, senza neppure essere un artigiano ma solo una specie di nomade errante che passa da un basso salario all’altro”.
“Perché pensa che ci abbiano imposto l’immigrazione senza limiti? Perché vogliono più massa lavoro, in modo da non dover pagare la gente. Hey, sono un diplomato con lode della Harvard Business School, ho lavorato nel dipartimento fusioni e acquisizioni di Goldman Sachs: conosco l’aritmetica. Il punto è di far crescere i margini di profitto e i margini crescono se tieni bassi i salari. Il modo per ottenere questo risultato è spalancare le frontiere, avere un mercato del lavoro aperto a tutti. Quel che vogliono è la competizione senza limiti dei lavoratori, lo capisco. Ma non è così che si costruisce una società. Non puoi distruggere il nucleo fondante, la famiglia ordinaria, dichiararle guerra negli Stati Uniti, in Italia, in Polonia o nella Repubblica Ceca. Io vengo da lì, da una famiglia della classe media americana, senza nulla di speciale. I Bannon sono operai, gente abituata a lavorare duro, alcuni negli Stati Uniti da quattro o cinque generazioni, altri da meno tempo. Se distruggi questo è tutto finito. Ecco perché i Salvini, i Di Maio, gli Orbán e i Nigel Farage sono eroi, perché danno voce a queste persone. Le nuove élite saranno fatte di patrioti, non i leader ma proprio le persone comuni che stanno finalmente prendendo il potere”.
Al di là dei toni apocalittici, è difficile dare torto a Bannon quando lamenta l’abbandono, anche da parte dei progressisti, di fasce intere della nostra società. Il problema sono le soluzioni. Su quelle ci sarebbe da discutere perché è difficile immaginare che i muri e le altre ricette avanzate dai nazional-populisti facciano altro che aggravare i problemi e moltiplicare i conflitti. Una certa agitazione nelle retrovie della suite mi segnala tuttavia che il nostro tempo sta per scadere, e ci sono ancora un paio di cose che ho voglia di chiedere al Trotsky della rivoluzione populista prima del termine del nostro incontro.
Oltre alle cause oggettive che giustificano la rabbia contro le élite, a me pare che svolga un ruolo anche il nuovo ecosistema informativo, fatto di social media che moltiplicano la rabbia e la frustrazione, perché il loro modello di business si fonda sull’engagement, sul trattenere più a lungo le persone con qualunque gancio emotivo possibile. Bannon non è d’accordo: “Questa è l’ipocrisia dei media tradizionali e dei progressisti, nessuno si lamentava del fenomeno quando vinceva Obama. Ora che perdono le elezioni non gli piace più la democrazia e non gli piace più internet. E non sono piccole sconfitte. Nelle primarie del 2016, se sommi i populisti di destra con quelli di sinistra, il totale arriva intorno al 60 per cento”. Va bene, certo, quando si perde il primo riflesso è sempre quello dell’imperatore persiano Serse che fa frustare il mare dopo la battaglia navale di Salamina. Ma al di là di questo non pensa che ci sia comunque un tema che merita di essere preso in considerazione? “Sì, certo, la ragione per la quale abbiamo bisogno di un movimento populista mondiale è che il prossimo stadio è quello di un’élite tecnocratica che sta emergendo dalla convergenza tra l’intelligenza artificiale, i progressi nella fabbricazione dei microchip, la robotica e l’ingegneria genetica. Forse non nel corso della mia vita, ma certamente nel corso di quella dei millennial, dovremo prendere decisioni cruciali sul fronte del transumanismo. E non possiamo permettere alle mega-aziende tecnologiche di prenderle per noi. Io sono un conservatore, ma su questa materia penso che abbiamo bisogno di più regole. I dati sono un bene pubblico, non possono essere di proprietà esclusiva delle aziende. La gente dev’essere in condizione di scegliere quale uso vuole fare dei propri dati personali, fino a che punto condividerli o meno. La conseguenza è che bisognerà pagare per servizi come Facebook e io penso che sarebbe giusto, perché in cambio recupereremo il controllo dei nostri dati. L’alternativa è un futuro nel quale un’élite tecnocratica si impadronisce gratuitamente dei dati che ciascuno di noi genera di continuo nel corso della giornata, e li monetizza attraverso algoritmi che producono informazioni e servizi tagliati su misura. Un meccanismo del quale la gente è completamente all’oscuro. Per cui io credo che il dibattito vada spostato dal tema attuale, che punta semplicemente alla ghettizzazione della destra alternativa su Facebook e gli altri social media, per affrontare la vera questione di fondo. Che tipo di controllo pubblico è giusto esercitare su queste potentissime aziende tecnologiche? E’ il grande tema del futuro”.
So che non mi risponderà, ma non resisto alla tentazione di segnalare l’ipocrisia del Movimento 5 stelle su questo fronte, con i loro grandi proclami sulla democrazia digitale e la realtà fatta di una piattaforma interamente privata e segreta, con tutti i dati nelle mani di una Srl che li manipola a suo piacimento. Bannon sorride, alza le spalle, tutto sommato non è un problema suo se in Italia siamo così fessi da farci infinocchiare da un paio di generazioni di Casaleggio. Però ci tiene a riprendere il discorso generale. “Questo tema è la spada di Damocle che grava sul nostro futuro. Il tema della sovranità digitale è importante come quello della sovranità monetaria. Oggi i populisti si battono per rimettere il potere nelle mani della gente comune, per produrre risultati concreti su questo fronte. Un domani dovranno preoccuparsi di farlo anche sul fronte digitale”.
Visto che siamo agli scenari epocali, chiedo a Bannon se vede la guerra nel nostro futuro. In fondo, la cosa che preoccupa di più, in tutto questo rullio di tamburi nazionalisti, è l’abbandono dell’orizzonte di pace che ha più o meno dominato l’Europa nel corso degli ultimi settant’anni. Bannon non prevede una guerra europea, ma in lui c’è l’idea di uno scontro fondamentale tra l’occidente cristiano (Russia compresa) e gli imperi orientali, principalmente la Cina. “Negli anni Novanta due generali cinesi hanno pubblicato un libro molto importante nel quale identificavano tre tipi di guerra: quella delle informazioni, quella economica e quella cinetica. La guerra economica tra la Cina e l’occidente è in corso da venticinque anni, ecco perché una quota così rilevante della capacità manifatturiera europea e americana è finita in Asia. Tra l’altro le nostre élite lo hanno capito e ci hanno guadagnato, perché non gliene importava nulla dei lavoratori. Basti pensare a quello che è successo all’industria dell’abbigliamento in Italia. Eroicamente, nel corso dei primi due anni del suo mandato, Trump ha preso atto del fatto che i cinesi ci hanno dichiarato guerra dal punto di vista economico e che è ora di controbattere. Se mai verrà il momento della guerra cinetica, si svolgerà nel Mar Cinese Meridionale, attraverso il quale passano tutte le esportazioni cinesi, e dove loro hanno costruito una dozzina di isole artificiali che sono sostanzialmente delle portaerei militari. Ma non penso che si arriverà fino a quel punto, perché Donald Trump sta spronando l’occidente a prendere delle contromisure. Il suo progetto è di trasformare Giappone, Corea, paesi del Nafta (Usa, Messico, Canada) e Unione europea in un blocco che abbia la forza di riorientare la catena di produzione globale in un senso meno favorevole alla Cina. E’ l’unico modo per contrastare i progetti di nuove vie della seta che i cinesi hanno messo in campo per affermare la loro egemonia economica. Questa è la grande battaglia geostrategica del nostro tempo. Di Maio è appena tornato dalla Cina (e qui non riesco a reprimere un sussulto nel sentire il nome di Giggino associato ai grandi temi geopolitici del momento, ma Bannon prosegue imperturbabile), ed è chiaro che c’è un tema di accesso al mercato cinese, ma tutto dipende dal prezzo da pagare. In questo momento, se vuoi lavorare in Cina devi condividere la tua tecnologia con loro. E’ un sistema che deve finire e Trump sta lavorando per questo, facendo uso di tutte le risorse a sua disposizione. E’ un processo che avrà enormi implicazioni per l’Europa e per l’Italia nei prossimi anni”.
Il colloquio è terminato. E’ durato più a lungo del previsto e i giannizzeri mi danno appena il tempo di stringere la mano del loro condottiere prima di essere espulso dalla war room della rivoluzione populista mondiale. Devo ammettere di essere piuttosto impressionato. Non condivido quasi nulla della visione di Bannon. Né le premesse, né le argomentazioni, né soprattutto le conclusioni. Eppure è difficile non essere colpiti dalla semplice inevitabilità con la quale sviluppa il suo ragionamento. In America come in Europa, i populisti hanno spesso un atteggiamento alquanto creativo nei confronti dei fatti nudi e crudi, quella che Bannon definisce “una concezione narrativa della verità”. Ma non si può negare che le loro verità alternative siano inserite in un discorso politico che intercetta le paure e le aspirazioni di una quota crescente dell’elettorato, mentre i fatti di chi prova a contrastarle sono inseriti in un racconto che non viene più giudicato credibile. In pratica, per i seguaci dei populisti non conta la veridicità dei singoli fatti, perché a essere vero è il messaggio d’insieme, che corrisponde alla loro esperienza e alle loro sensazioni. E di fronte a questo, servirà a poco accumulare i dati e le correzioni di dettaglio, se la visione complessiva dei governanti e dei partiti tradizionali continuerà a essere percepita da un numero crescente di elettori come poco pertinente rispetto alla realtà.
Bannon è un benchmark. Scordiamoci pure di batterlo fino a quando, da progressisti e da liberali, non saremo capaci di mettere a punto un discorso in favore dell’Europa e dell’apertura che sia dotato della stessa micidiale efficacia con la quale lui difende le ragioni del nazionalismo e della chiusura.
Crepe nell'“area Putin-Erdogan”