Serve la Françallemagne, non le ideuzze
Teoria (e difficile prassi) di un governo a due, Parigi-Berlino, per l’Europa. L’Unione a 27, fatta di principi e diritti, non regge contro i Trump, i Putin e i populisti. Ci vuole un comando, ma forse è già tardi
Un governo franco-tedesco per l’Unione? Un’alleanza speciale a due, Parigi e Berlino, la Françallemagne, come unico contrappeso possibile alle due grandi svolte del 2016, la Brexit e Trump? È sensato pensare a un fatto, a una rottura di continuità, che sia all’altezza dell’ondata di risentimenti nazionali e populisti che minacciano, con le elezioni di primavera 2019 imminenti e con molti altri fatti già in corso in Europa e nel mondo, il vecchio progetto europeista? O è sufficiente il fronte detto progressista contro i nazionalismi, che per adesso è l’unico manifesto ideologico, culturale e politico tirato fuori da Macron e dagli estremi difensori della costruzione politica di Bruxelles?
In Francia si parla di questo. Nella sua prosa canterina e molto ossessionale, ma non priva di efficacia e di un certo panache, tanto più ora che i benpensanti vorrebbero vanamente censurarlo e sbatterlo fuori dalle televisioni, l’ideologo Eric Zemmour, che si applica alla storia e al “destino francese”, prende d’assalto la costruzione europea, negatrice dell’identità nazionale, con una lettera del cancelliere dell’unità tedesca, Bismarck, scritta nel 1871 all’ambasciatore a Parigi, un anno dopo la vittoria germanica sull’esercito di Napoleone III: “Allora si pensa alle grandi città scomparse dalla scena del mondo: Tiro e Babilonia, Tebe e Sparta, Cartagine e Troia. Perché la Francia, rinnegando il suo passato glorioso, ormai nelle mani degli avvocati e dei funamboli, cesserà presto di essere francese per divenire repubblicana”. Questa del Cancelliere di ferro è l’espressione di una inimicizia ereditaria, di secoli, che viene ora giusta, nella denuncia dell’intellettuale nazionalista, per stigmatizzare l’Europa che ha messo lo stato di diritto e altre idealità liberali e umanitarie al posto della storia dei popoli e della loro civilizzazione particolare difesa da confini sicuri, minacciando l’estinzione di storia e civilizzazione. Ben scavato.
Il problema è che più o meno la stessa diagnosi, fatta da un philosophe di sinistra senza paraocchi, Jacques Julliard, viene attribuita a Jules Ferry, nemico di Napoleone III e gran prototipo del républicain alla francese. Parlando della necessità dell’efficacia in politica, e teorizzando la Françallemagne, cioè un governo e un’alleanza speciale a due come rimedio alla polverizzazione della vecchia costruzione degli anni Cinquanta, Julliard cita Jules Ferry che chiedeva alla Repubblica quel che lui chiede ora all’Europa del vecchio asse tra Robert Schuman e Konrad Adenauer: “Un governo, e non soltanto un sistema e dei princìpi”. Insomma, République o Unione, Ottocento o XXI secolo, da qualunque parte si guardi la questione del comando politico uscito fuori controllo, che deve saper ridivenire chiaro per acquistare potenza e evitare la dispersione, è posta con enfasi molto francese.
Se Bruxelles non vuole fare la fine di Tiro o Babilonia, è bene che il suo modo di funzionare come sistema dello stato di diritto e della normatività economica sovranazionale e intergovernativa sia adeguato al bisogno strategico del momento: un governo tra Parigi e Berlino, e un’alleanza speciale a due, aperta al libero scambio ma incardinata su un centro di decisione che non sia un “sistema” ormai disfunzionale e sotto attacco, ecco quel che ci vuole. Con Trump che mesta e provoca, con i britannici in fuga, nell’ordine mondiale disintegrato in cui saltabeccano le democrature, con la Cina nella sua relazione speciale con l’America postatlantica, e perfino con i rissosi spendaccioni pop all’italiana, in un mondo così, che produce fatti, tariffe, muri da democrazia illiberale e deficit à gogo, forse più che un pomposo e inconcludente Consiglio europeo a 27 membri serve un governo a due che faccia da guida di un meccanismo a più velocità e a più livelli.
Sembrerebbe a occhio una trovata di buonsenso o di senso comune. Purtroppo è parecchio tardi. Un anno fa alla Sorbona Macron aveva pronunciato un perfetto discorso-manifesto sul futuro dell’Europa, ma il tempo e gli eventi lo hanno impietosamente disfatto. E la Merkel, che nel frattempo ha difficoltà a nominare il capogruppo al Bundestag nel suo quarto e fragile mandato di governo, e che comunque già prima accoglieva sempre Macron alla Cancelleria dicendogli, con ironia più o meno sulfurea, che è “un ragazzo pieno di idee”, non pare nella forma giusta. Eppure non ha torto l’economista liberale Nicolas Baverez quando mette in guardia dalla disintegrazione dell’Unione europea, visibile già dalle prossime elezioni, perché il fronte dei “progressisti”, termine che ricorda i compagni di strada dell’Unione sovietica, “forzerebbe i cittadini a scegliere tra l’Europa e le nazioni”, e perciò stesso sarebbe come “scrivere l’atto di decesso dell’Unione”. La Commissione a 27 è restata unita nel negoziato con Theresa May, e ha messo delle sanzioni commendevoli ma inutili a Viktor Orbán; tuttavia lo strepito dell’immigrazione come chiamata alle armi e alla protezione sociale dei nazionalpopulisti e il dilagare delle guerre commerciali e dei deficit, senza più il retroterra dell’ordine mondiale di Bretton Woods, ma con Trump e Putin e Xi Jinping che si disputano l’osso europeo come variabile d’aggiustamento, forse richiede un governo a due e un’area governabile di riferimento. Francia e Germania come nucleo duro non sono poca cosa, ma la situazione è piuttosto molle.