Così Trump si prende gli anti #metoo
“Le donne che protestano? Paga Soros”, dice il presidente americano. A volte serve un grosso bullo per tenere testa ai grossi bulli, scrive Bret Stephens
New York. A questo punto la nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte suprema è quasi certa e i senatori repubblicani che prima erano in dubbio a causa dell’accusa chiara ma non provata di violenza sessuale hanno annunciato di essere pronti a votare la conferma. Ma la vicenda si è ingigantita e ha ormai superato i confini del singolo caso Kavanaugh per diventare una riflessione nazionale sul movimento #metoo, che ieri ha compiuto un anno (la data d’inizio corrisponde alla pubblicazione sul New York Times di un articolo che descrive le molestie sessuali di Harvey Weinstein, un produttore di Hollywood, e delle sue manovre per silenziare le accusatrici). Anzi, più che una riflessione è diventata l’inizio di un contromovimento.
Ieri il commentatore conservatore Bret Stephens, che appartiene a quella fazione dei conservatori che considera l’Amministrazione Trump un disastro, ha scritto sul New York Times che per la prima volta deve ringraziare Trump di esserci e di essere stato in questa circostanza “un martello grande e grosso contro la daga affilata come un rasoio” del movimento #metoo che rovina la vita degli uomini accusati senza prendersi il disturbo di provare le sue accuse. Trump è un “grosso bullo” scrive Stephens, ma a volte serve un grosso bullo per tenere testa ai grossi bulli del #metoo. Sono grato che ci sia Trump “perché a volte l’ostinazione feroce e persino volgare nella vita serve” e perché “preferirei essere accusato di omicidio che di violenza sessuale e non solo perché l’omicidio in alcuni casi può essere giustificato e la violenza sessuale mai, ma anche perché le false accuse di violenza sessuale causano danni che durano tutta una vita” e “sono cinque volte più frequenti di tutte le altre accuse”. Lo stesso giorno sul sito della rivista Atlantic, che di solito è un’altra campana molto anti Trump, Emily Yoffe scrive: “Se credere a quello che dice una donna è l’inizio e anche la fine della ricerca della verità, allora abbiamo lasciato il reame della giustizia per quello della religione”. La questione è resa ancora più complicata da Trump, dalle sue sparate e dal suo desiderio di eccitare la base a trenta giorni dalle elezioni di metà mandato – che secondo i sondaggi vedranno una partecipazione scarsa da parte degli elettori repubblicani.
Dopo avere rispettato uno strano periodo di tregua e di compostezza, il presidente americano ha rotto gli argini. Prima ha fatto l’imitazione durante un comizio della professoressa Christine Blasey Ford, che nel frattempo dopo aver denunciato il tentato stupro di Kavanaugh era stata costretta a lasciare la casa assieme con la sua famiglia per le minacce di morte. Poi ha scritto un tweet in cui accusa le donne che protestano contro i senatori repubblicani – e che sostengono di essere vittime di violenze sessuali – di essere soltanto figuranti pagate. E anche le manifestazioni davanti al Senato sono “pagate da Soros”. E’ un tweet che contiene almeno un paio di topos delle provocazioni della destra complottista: l’idea che chi protesta sia un “crisis actor”, quindi un attore pagato per recitare, e che dietro ci sia un finanziamento da parte del magnate George Soros (e come diceva non ricordo più chi, e me ne scuso, oggi si dice Soros perché complotto demoplutogiudaico non ci sta su Twitter). Così, anche il movimento anti #metoo che è nato per portare scetticismo a proposito della procedura d’accusa ha subito preso la tinta politica di una delle tante battaglie sguaiate del presidente.
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