L'audio dell'omicidio
C'è tutto Trump e il suo sistema di alleanze nella difesa sfacciata dei sauditi
Khashoggi torturato e decapitato, dicono i turchi. I legami con il principe MBK. Dateci le prove, dice la Casa Bianca, “se esistono”
Milano. Jamal Khashoggi è stato picchiato, torturato (gli hanno tagliato le dita), decapitato e fatto a pezzi appena è entrato, il 2 ottobre, nel consolato saudita a Istanbul, poco prima delle due del pomeriggio. I media turchi, che da quindici giorni centellinano indizi e dettagli sulla sparizione del giornalista saudita, mercoledì hanno raccontato il contenuto di un audio di sette minuti registrato nel consolato. I turchi avevano rallentato un po’ le rivelazioni, ma quando hanno visto il segretario di stato americano, Mike Pompeo, sorridente con il principe saudita, Mohammed bin Salman, a Riad, e quando hanno sentito il presidente Donald Trump dire che il principe è “innocente fino a prova contraria”, hanno deciso di colpire duro: questi media sono filogovernativi, se scrivono è perché hanno ottenuto un’autorizzazione.
Almeno nove delle quindici persone che, secondo la Turchia, sono coinvolte nell’omicidio di Khashoggi “lavoravano per i servizi segreti, per l’esercito o per ministeri sauditi”, scrive il New York Times. La teoria dei sicari indipendenti, i “rogue killers”, come li ha definiti Trump, è invero poco credibile. Il quotidiano newyorkese ha ricostruito per immagini il legame tra uno dei quindici, Maher Abdulaziz Mutreb, e Bin Salman: Mutreb è un diplomatico assegnato alla sede londinese nel 2007, che ha viaggiato molto con il principe, “forse come suo bodyguard”. I turchi, tra gli altri, hanno identificato Salah Muhammad al Tubaiqi, che è il capo della medicina legale del ministero dell’Interno saudita e che, secondo l’audio, ha detto agli altri di “ascoltare musica” mentre faceva a pezzi letteralmente Khashoggi. Poiché questa uccisione vuole lasciare un segno nel futuro delle relazioni geopolitiche, i giornali turchi insinuano che con tutta probabilità Khashoggi era nel mirino dei sauditi per i propri legami con il Qatar. Tutto il mondo, con i suoi equilibri precari, è stato smembrato dentro a un consolato, mentre si controllano le fogne, la verniciatura fresca delle stanze in cui è morto il giornalista, i sacchi della spazzatura e i modelli di seghe sul mercato: i sauditi e gli americani da una parte, a difendersi, i turchi e i qatarioti dall’altra ad accusare, e i russi con gli iraniani silenziosi e in attesa di vedere se e dove ci sarà un guadagno, trincerati in un no comment piuttosto inusuale per gli eserciti di troll pronti a scattare alla vista del sangue.
Trump ha adottato la sua solita strategia: tenere duro. Bin Salman è “innocente fino a prova contraria”, dice il presidente americano, voglio vedere il video e l’audio, ha aggiunto mercoledì, “se esiste”. Trump traccia il parallelo che risuona forte e chiaro nel suo mondo e nel suo elettorato: anche con il giudice Brett Kavanaugh c’è stato un processo pubblico sulle sue presunte molestie sessuali in vista della nomina alla Corte Suprema, ed è uscito innocente, sarà così anche con i sauditi. A Trump non importa quel che è accaduto, importa tenere il punto: se gli altri menano lui mena più forte. Così domenica, nel mezzo della crisi, mentre i sauditi facevano trapelare la notizia di una probabile ammissione della propria responsabilità (che ancora non è arrivata), in un’intervista alla Cbs, Trump ha ribadito la sua visione delle alleanze che tengono in ordine il mondo: “Voglio dire, cos’è un alleato?”, ha detto il presidente, “nessuno ci tratta peggio di come fa l’Unione europea”. Ma vuole distruggere il sistema di alleanze che ci ha garantito la pace per 70 anni?, ha chiesto il giornalista: “Questo non lo puoi sapere”, ha risposto Trump. I sauditi vanno difesi, sfacciatamente difesi, i nordcoreani corteggiati, i russi saranno pure cattivi ma non in America (hanno fatto un attentato chimico nel Regno Unito, alleato della Nato), mentre i canadesi e gli europei vanno governati e ridimensionati: loro sì che sono pericolosi. Bin Salman vuole godere dello stesso privilegio di altri dittatori: se il rais siriano, “Animal Assad” come lo chiama Trump, è ancora a Damasco a organizzare piani di riconquista con il sarin, che cosa dovrà mai temere il principe saudita che ha affascinato il mondo? Impunito uno, impuniti tutti.