L'esercito di troll cui si affida Bin Salman per insabbiare l'omicidio di Khashoggi
Disinformazione di regime (ricorda qualcuno?). Da giorni i social arabi sono intasati da hashtag in sostegno del principe e infangano il giornalista scomparso
Milano. “Non ci sono boy scout in medio oriente”, ha scritto in un articolo su Haaretz l’ex ambasciatore americano in Israele, l’altro paese, assieme agli Stati Uniti che, seppur formalmente nemico dell’Arabia Saudita, aveva puntato sul principe ereditario Mohammed bin Salman come alleato strategico per arginare l’espansionismo iraniano nella regione. Scrive il diplomatico che il presunto assassinio del giornalista Jamal Khashoggi e i dettagli che continuano a emergere, “oltre a obliterare le linee rosse dell’immoralità, indicano una fondamentale inaffidabilità dei sauditi come partner strategici”. E cita un adagio di Napoleone: l’eliminazione di un oppositore “è peggio di un crimine, è un errore”, che in questo caso costerà caro al regno anche se l’Amministrazione americana tenta di salvaguardare il proprio alleato ridimensionando l’immensità dell’accaduto.
Il crimine saudita non ha alcun precedente: uccidere e fare a pezzi in un consolato un giornalista, senza nemmeno preoccuparsi di non lasciare tracce. Da giorni la macchina della disinformazione saudita, ripresa da parte della stampa conservatrice americana, cerca in qualche modo di fare l’impossibile: insabbiare l’atroce crimine. Sebbene l’Arabia Saudita sollevi nell’immaginario comune l’idea di un regno ultra-conservatore e anacronistico, il governo di Riad, come racconta bene Anne Applebaum sul Washington Post, il giornale sul quale scriveva da diverso tempo Jamal Khashoggi, “ha affinato una sofisticata politica di disinformazione”, “simile a quella usata in altri stati che hanno imparato a usare i social media per il controllo sociale”. E se soltanto fino a pochi anni fa, durante le rivolte arabe del 2011, autocrati in bilico minacciati dalle piazze arrabbiate staccavano la spina e chiudevano internet, oggi chi è sopravvissuto a quelle rivoluzioni ha capito che non serve silenziare il web, basta saperlo sfruttare in maniera sapiente.
Così, da giorni i social arabi sono intasati da hashtag in sostegno del principe MBS – che è piuttosto amato dai giovani sauditi, anche solo per questioni anagrafiche: ha 33 anni in un mondo di leader antichi – originati da privati cittadini ma, come riporta il Washington Post, anche da account vicini all’amministrazione saudita, gli stessi troll e bot che anche durante la crisi con il Qatar spingevano le posizioni di Riad e infiammavano la disputa, e che oggi chiedono ai cittadini di “segnalare” le voci dissidenti. O che propagano dettagli su un presunto passato oscuro di Khashoggi: “Un sostenitore di Osama bin Laden”, che ha intervistato da giovane, quando era un giornalista vicino a una parte della famiglia reale oggi caduta in disgrazia politica, o “pro Fratelli musulmani”.
Alcune voci conservatrici negli Stati Uniti tentano di ridimensionare la portata del crimine dipingendo il giornalista come una specie di estremista. Sebbene anche i senatori repubblicani, tra i quali Marco Rubio, chiedano all’Amministrazione Trump di prendere una posizione forte contro Riad – con l’imposizione di sanzioni – il presidente e il suo staff cercano ragioni per proteggere la relazione con un alleato fondamentale come l’Arabia Saudita e con quel principe al quale hanno consegnato le sorti di un’intera strategia regionale in medio oriente, quella di contenimento dell’Iran. Mentre il resto della comunità internazionale prende le distanze da Riad, da Hollywood attori come Gerard Butler cancellano presentazioni di film nel regno, e la finanza, dal Fondo monetario internazionale a JP Morgan e MasterCard fanno saltare le loro partecipazioni a una centrale conferenza sugli investimenti a fine mese, Donald Trump evoca teorie del complotto, la presenza di “rogue killers” – sicari fuori controllo –, spiega le difficoltà dell’America nel cancellare miliardi di dollari in commesse militari a Riad, ne ricorda l’importanza strategica in opposizione alla minaccia di un Iran atomico e – contro ogni evidenza, visto che gli Stati Uniti sono ormai autosufficienti dal punto di vista petrolifero grazie allo petrolio di scisto – evoca la ricchezza energetica dell’alleato, e la sua importanza per il fabbisogno americano.