Perché Putin e Bin Salman dovrebbero essere tanto sfacciati?
Il principe saudita scherza alla Davos di Riad, nessuno chiede conto di Skripal al presidente russo. Benvenuti nella stagione dell’impunità
Milano. La versione dei sauditi sull’uccisione di Jamal Khashoggi è cambiata sei volte; nel frattempo è stato trovato un capro espiatorio – il numero due dell’intelligence, Ahmad al Assiri – e il potente principe saudita, Mohammed bin Salman, ha stretto la mano del figlio di Khashoggi (guardate l’espressione del ragazzo nella foto dell’incontro, guardatela e provate a mettervi nei suoi panni, anche solo per qualche istante) e ha partecipato alla “Davos del deserto” a Riad senza risparmiarsi battute e ironia – come se nulla fossa accaduto. Khashoggi è stato ucciso il 2 ottobre, ma per qualche giorno si è parlato soltanto di sparizione: se la fidanzata di Khashoggi non fosse stata fuori dal consolato saudita a Istanbul ad aspettarlo, se non avesse detto con sicurezza che lui era entrato e non era mai uscito, probabilmente la questione si sarebbe chiusa lì. In Turchia può accadere di tutto, ci sarebbe stata una lista infinita di sospettabili, avremmo anche pensato che lui, che avrebbe dovuto sposarsi il giorno dopo, magari era stato preso dal panico del vincolo matrimoniale ed era fuggito. Avremmo creduto a tutto: c’è la tentazione di farlo anche quando i fatti sono molto chiari, figurarsi.
Il 3 ottobre i sauditi hanno detto: Khashoggi è uscito vivo dal consolato.
L’8 ottobre i sauditi hanno detto: le notizie sulla morte sono “completamente false e senza fondamento”. Il 15 ottobre, in seguito a una telefonata con i sauditi, il presidente americano, Donald Trump, ha detto: Riad nega “fermamente” ogni coinvolgimento, “mi sembra che i colpevoli possano essere dei killer fuori controllo, chi può saperlo?”. Il 20 ottobre, i sauditi hanno detto: da un’indagine preliminare è emerso che la discussione tra Khashoggi e le persone incontrate al consolato è finita “in una rissa e in una scazzottata” che ha portato “alla morte” del giornalista. Il 21 ottobre, per la prima volta, il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ha parlato in un’intervista a Fox News di “omicidio”, ha confermato che nessuno a Riad era al corrente, che l’uccisione è stato “un errore” e che il regno stava cercando di trovare e punire i colpevoli. Il 25 ottobre, il procuratore generale saudita ha detto: l’omicidio era premeditato.
Intanto, con la complicità dei media (quindi del governo) turchi, i dettagli diventavano sempre più cruenti: Khashoggi è stato ucciso in pochi minuti, non prima che gli fossero tagliate le dita delle mani e – dice un’indiscrezione – non prima che gli telefonasse Bin Salman in persona per dirgli di tornare in Arabia Saudita (al suo rifiuto sarebbe scattato l’ordine di ucciderlo), poi il suo corpo è stato fatto a pezzi e portato fuori dal consolato – “portatemi la testa di quel cane”, avrebbe detto, secondo le indiscrezioni turche, Saud al Qahtani, consigliere di Bin Salman (lo chiamano lo “Steve Bannon del principe”), che avrebbe diretto l’operazione via Skype.
Poiché i dettagli sono stati forniti dai turchi, molti commentatori hanno iniziato a dire che la ricostruzione poteva essere viziata dal presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, che ha grande interesse a gettare discredito sul regno saudita. E così, tra i dubbi trumpiani e i sospetti su Erdogan, le analisi hanno preso il sopravvento sui fatti. Anzi, di più: sulle immagini. Perché ci sono le foto dei 15 uomini che sono entrati nel consolato da cui Khashoggi non è mai uscito, e molti di questi (almeno nove) compaiono in altre foto con Bin Salman. Per non parlare dell’audio registrato nel consolato. Ma il dubbio persiste: perché Bin Salman avrebbe dovuto fare un’operazione tanto sfacciata, tanto stupida? E’ la stessa domanda che risuona sull’attacco con il Novichok contro la spia russa Skripal: ci sono le immagini delle telecamere a circuito chiuso di Salisbury che testimoniano i passaggi dell’operazione portata a termine da quelli che Vladimir Putin chiama “turisti” e che sono dipendenti dei servizi segreti russi. Ma perché Putin avrebbe dovuto ordinare un’operazione tanto sfacciata, tanto stupida e controproducente? Il punto sta proprio qui: perché entrambi, Putin e Bin Salman (non solo loro, va da sé), sanno che non accadrà granché, e che le reazioni, nel caso, non sarebbero comunque proporzionate alla gravità delle operazioni commesse. Si chiama impunità, e ne siamo immersi. Come scrive Bob Kagan, teorico della “giungla” in cui siamo finiti: “L’Arabia Saudita è un paese che non sa difendersi senza il sostegno di Washington, e in passato nessun leader saudita avrebbe commesso un atto tanto sfacciato con la consapevolezza che Washington non avrebbe fatto nulla”. Ora questa consapevolezza c’è, e no, non è soltanto l’America ad aver inaugurato questa stagione dell’impunità.