Cosa ci dice sullo stato di diritto la storia di Moro, ministro di Bolsonaro
Quella dei magistrati che fanno politica facendo giustizia e poi fanno politica facendo politica è un cancro antico come il mondo. Storia di un pm in carriera che sputtana il lavoro per libido di potere
Sérgio Moro è un incorruttibile che ha fatto piazza pulita dei ladri e ora, sull’onda di un pronunciamento popolare a favore di un uomo violento che promette legge e ordine, assume una carica di governo potentissima, forte della sua aureola di giustiziere, di crusading prosecutor, sperando di giocare un ruolo di garanzia nel nuovo ordine brutale. Oppure è un figlio di puttana che ha colpito al cuore il sistema di potere e di governo del Partido dos trabalhadores, la sinistra lulista brasiliana, con mezzi giudiziari torti a uno scopo politico, e ora accetta di fare uno scatto di carriera stellare, a cui si era sempre detto indisponibile, mettendosi al posto di quelli che ha sbattuto in galera. Un magistrato pensoso delle sorti della nazione fino all’estremo sacrificio di mettersene alla guida a fianco di un presidente pistolero oppure un procuratore fellone che ha tradito in serie prima il diritto poi la politica, usando i codici come un’arma e profittando degli effetti della sua sparatoria. Ognuno giudichi come vuole, io sono per la seconda ipotesi.
Il sistema lulista non era un giglio di campo. La decisione di costruire la successione al gigante buono, un po’ profeta e un po’ ubriacone, che aveva sollevato grandi speranze, mettendo in campo la donna che aveva tenuto nelle sue mani l’azienda petrolifera di stato, Dilma Rousseff, mostra tutte le insidie di un sistema simile a quello dei partiti italiani prima del loro crollo nel 1993. Recessione, insicurezza prodigiosamente in crescita, disoccupazione e invasione di campo della nomenclatura in tutti i gangli della vita pubblica, scarsi o nulli risultati in economia e sicurezza, ecco gli elementi che hanno prodotto una reazione aberrante, niente può giustificarla visto l’uomo o la famigliola che la incarna, i loro atti, parole, le loro testimonianze di disprezzo conformista di criteri comuni di umanità e rispetto travestite da trumpismo politicamente scorretto. Il ceto professionale e politico più risibile d’Europa, i liberalucci italiani al Barolo, quelli che vorrebbero portare l’etichetta enologica del liberalismo all’ammasso delle mercanzie di Bolsonaro, si sono aggregati al carro, buon per loro. Nonni e bisnonni lo avevano già fatto negli anni Venti in Italia, nipoti e pronipoti ignari delle repliche della storia fanno la loro replicuzza in nome del principio di realtà. Aveva ragione Longanesi, ad appoggiarvisi troppo, i princìpi poi si piegano.
Da noi, questo è il punto, un tipo o un Idealtipo come Sérgio Moro non è sconosciuto, e non parlo del solo Di Pietro, che è sempre stato una caricatura, alla quale gli italiani di maggioranza hanno dato, creduloni interessanti come sono, un credito grottesco nel corso del tempo, fino ai noti esiti. Quando facevo campagna contro il nostro piccolo Moro nel Mugello, vent’anni fa, e Prodi e D’Alema e Veltroni garantivano all’unisono per lui in affollate assemblee di regime, riferivo sempre nei comizi una frase di Craxi o di un altro dei liquidati dell’operazione di Mani pulite: guardate che quelli lì vogliono solo mettersi al nostro posto. Quella dei magistrati che fanno politica facendo giustizia e poi fanno politica facendo politica è un cancro antico come il mondo, ma sempre di sorprendente attualità. La divisione dei poteri è un ricordo illuminista dei philosophe, uno di quei baluardi della democrazia liberale su cui non si deve poi troppo contare per eventualmente difenderla. Ora vedremo se Bolsonaro sarà smentito dal sistema istituzionale brasiliano, che riuscì in parte a temperare perfino ventuno anni di dittatura dei generali, oppure se sarà quel che ha promesso. Moro è già quel che ha promesso: un magistrato in fulminante carriera che sputtana il suo lavoro per ambizione e caparbietà e libido di potere.
l'editoriale dell'elefantino