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E il Russiagate con il suo potenziale anti Trump? Non se ne parla (e i russi sorridono)

Micol Flammini

La superinchiesta sulle ingerenze elettorali di Mosca non interessa granché, nonostante le minacce ancora attuali. Le speranze del Cremlino

Roma. Cosa ne è stato del Russiagate? Cosa ne sarà dell’inchiesta sulle interferenze russe e sui legami tra la campagna elettorale di Donald Trump e il Cremlino dopo queste elezioni di metà mandato? Poco, nulla. Il procuratore Robert Mueller che ha per le mani l’inchiesta che potrebbe costare a Trump la presidenza farà il suo lavoro, schivando le accuse – recentemente è stato anche tacciato di molestie da donne pagate per screditarlo – e le minacce. Continuerà a lavorare nell’ombra a questa inchiesta infinita, a trovare le prove che stanno dimostrando come i russi con estrema pazienza e determinata calma hanno lavorato alla costruzione di strade per arrivare alla Casa Bianca. Due ricercatori della Columbia University, Tinatin Japardize e Arnold Saltzaman, che si occupano di relazioni tra Russia e Stati Uniti hanno scritto un op-ed, pubblicato anche sul Moscow Times, per dimostrare come il risultato delle midterm per i russi comunque non sarà un problema: qualsiasi cosa accada, Trump e la sua Amministrazione rimarranno lì dove sono. I media a Mosca non parlano molto di queste elezioni, ma il Cremlino le ha seguite in lontananza, sapendo che questa volta non sarebbe stato facile intromettersi, ma forse, come scrivono i due ricercatori, non sarebbe stato necessario.

 

I democratici hanno capito che con il Russiagate non andranno lontano. Fare campagna elettorale su questioni come il ruolo di Mosca nelle elezioni del 2016 non è una strategia vincente. Agli americani non interessa. Anzi, piuttosto preferiscono sentirsi dire il contrario, che è tutta una montatura, come dimostrano le classifiche che a inizio agosto davano il libro di Gregg Jarrett, “The Russian Hoax”, (la bufala russa), come il più venduto su Amazon proprio mentre in Virginia andava avanti il processo contro Manafort, ex capo della campagna elettorale di Trump che ha accettato di collaborare con le indagini di Mueller, e mentre Bolton avvisava del rischio di possibili interferenze alle midterm. La dimostrazione del fatto che gli Stati Uniti non vogliono sentirne parlare è arrivata anche qualche tempo fa quando il New York Times ha pubblicato un articolo monumentale che raccoglieva mail, report sulle attività dei troll sui social, incontri tra gli uomini dell’allora candidato repubblicano e quelli del presidente russo. Nei giorni in cui il quotidiano pubblicava l’inchiesta, l’America seguiva con avidità le storie legate al passato dell’uomo che Trump aveva candidato come giudice della Corte suprema. Si interessavano ai dettagli, alle storie, alle testimonianze delle donne che ai tempi del college, trentasei anni fa, dicevano di aver subìto le molestie di un Brett Kavanaugh giovane e sbronzo. Dell’articolo del New York Times, dal titolo “The Plot to Subvert an Election”, il complotto per sovvertire un’elezione, non interessava a nessuno. I democratici, imparata la lezione, si concentreranno su questioni domestiche come l’assistenza sanitaria o l’ambiente e terranno l’indagine di Mueller nell’ombra aspettando che si gonfi, magari per tirarla fuori in seguito. Bret Easton Ellis sull’ultimo numero di Vanity Fair racconta di essere andato a cena prima con dei democratici, pessimisti riguardo ai possibili risultati delle elezioni di metà mandato, poi con dei repubblicani. I repubblicani, forse per scaramanzia o sfiducia nei confronti dei sondaggi, raccontavano allo scrittore che un successo degli avversari non poteva essere escluso a priori, ma i numero dei democratici non sarebbero comunque sufficienti per un impeachment.

 

Le intenzioni dei repubblicani mettono il Cremlino in una posizione ancora più comoda. Nessuno è interessato a parlare di Russiagate. E’ vero che la politica di Donald Trump nei confronti della Russia cambia di settimana in settimana, dopo il vertice di Helsinki a luglio, durante il quale Trump aveva detto di fidarsi di Vladimir Putin, il presidente americano ha: intensificato le sanzioni economiche contro Mosca, cacciato i diplomatici dopo il caso Skripal e annunciato l’intenzione di annullare il trattato sui missili nucleari a medio raggio del 1987. Per Putin, sotto alcuni punti di vista, Trump è stato una delusione, ma con una maggioranza repubblicana sia alla Camera sia al Senato, l’approccio nei confronti di Mosca sarebbe sicuramente più morbido. Secondo i ricercatori della Columbia, la vittoria dei repubblicani potrebbe anche dare a al presidente americano l’impulso e la forza di cacciare i pochi residui antirussi rimasti nell’Amministrazione, come James Mattis, segretario alla Difesa. Per Vladimir Putin “l’esito preferito”, come scrive Alexander Gabuev del Carnegie, sarebbe comunque una vittoria di Trump.

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