Le elezioni di metà mandato sono un'altra occasione mancata per i moderati
Tutti a dire: la polarizzazione è il male di questa stagione. Eppure è aumentata. Il centro vuoto è una sciagura e una possibilità
Milano. Tutto quel che Donald Trump tocca diventa materia miracolosa, le elezioni di metà mandato erano “noiose” e poi sono diventate la cosa “più eccitante” che c’è, record di incassi, ha detto fiero il presidente alla vigilia del voto. Trump non teme affatto il referendum su se stesso, anzi lo ha cercato in ogni modo, e nell’Election day era immortalato sulla copertina del New York Post rilassato, su una sdraio in spiaggia, “cosa, io preoccupato?”, diceva il titolo. Lui sa cose che noi non sappiamo, era accaduto nel 2016, perché non può accadere anche adesso? La campagna elettorale è stata impostata su questa convinzione, il mondo trumpiano – cui si è accodato il Partito repubblicano, che è ancora attraversato da sussulti di ribellione, ma sempre meno – contro tutti gli altri, e mentre i politologi, i commentatori, i sociologi ripetevano che la polarizzazione è il male di questa stagione, la frattura si è approfondita.
La naturale opposizione tra due partiti rivali si è trasformata in uno scontro acre, i repubblicani accusano i democratici di svilire l’America – di più: di renderla meno sicura, di volerla annacquare dal punto di vista identitario e di volerla trasformare in una repubblica socialista – e i democratici allo stesso modo rispondono che l’America non è di nuovo grande, è piccina, è misera, è annichilita da una presidenza che ha a cuore soltanto la propria sopravvivenza politica e non l’interesse del paese. In entrambi i casi, a farne le spese non è soltanto l’immagine del paese, che già sarebbe sufficiente per disperarsi, ma anche le istanze più moderate, i candidati più moderati, quel luogo della politica che dovrebbe combattere la polarizzazione a suon di proposte, idee, visioni perlomeno comunicanti. L’Atlantic ha pubblicato un articolo che fin dal titolo mette a fuoco questa questione: “Le elezioni di metà mandato del 2018 possono uccidere il moderato americano per sempre”. L’autrice, Elaina Plott, ha parlato con strateghi, candidati, e ha scoperto che un mondo moderato esiste ancora – lo definisce come quello che vuole parlare dei temi concreti e non dei partiti o dei loro leader – sia per chi si candida sia per chi vota, ma rischia di diventare sempre più piccolo, se non si riesce ad attivare presto un “moderate playbook”. La campagna elettorale ha mostrato bene le preferenze dei politici: il tema più razionale che c’è – l’economia – non è stato quasi mai toccato, e sì che con quei dati e con quei racconti da paese in piena occupazione che solitamente si leggono soltanto sui manuali delle università come “ideali” sarebbe stato un argomento potente, da America che è davvero “great”. Ma se si guardano i termini più utilizzati nei dibattiti elettorali, si ritrova la famigerata “carovana” di migranti, che è diventata sinonimo di invasione (richiedenti asilo lontani 800 km dal confine) e di immigrazione illegale; si ritrova il “socialismo”, perché molti candidati dei democratici vengono dall’ala più radicale del partito (ed extrapartito), lo rivendicano con orgoglio e i repubblicani s’allarmano, c’è l’invasione dei migranti e c’è l’invasione dei rossi, agguerriti, pronti a spendere tutte le risorse accumulate; c’è poi il termine “razzismo”, che riapre solchi che parevano chiusi per sempre.
Questa rappresentazione non deve ingannare: i candidati moderati ci sono sia tra i democratici sia tra i repubblicani, alcuni dovevano rinnovare il mandato, altri invece erano alla prima esperienza e per loro tentare la carta del centrismo, della concretezza, meno Trump più proposte pragmatiche, è stato un azzardo grande. La proporzione di candidati moderati continua a diminuire dagli anni Duemila e definirsi moderati è diventato un esercizio di equilibrismo: non soltanto devi prendere le distanze dai tuoi rivali, ma spesso anche dai tuoi compagni di partito – le vittorie più clamorose già dalle primarie sono state registrate tra i democratici di ala radicale che hanno battuto colleghi cosiddetti dell’establishment. Essere convincenti mentre si cammina su questa corda sottile non è facile, molti moderati si sono ritirati, altri hanno fatto fatica a non farsi trascinare verso gli estremi, ed è forse questa la lezione politica più rilevante di questo voto di metà mandato: al trumpismo si è opposto un antitrumpismo altrettanto radicale, la base conservatrice si è compattata, quella democratica si è spostata verso sinistra. Il centro è più vuoto, ma questa è al tempo stesso una sciagura e una possibilità.
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