Il tabù francese
Non solo le colpe coloniali denunciate da Macron. Per cristiani ed ebrei in Algeria fu un jihad. Le “verità nascoste” secondo i nuovi storici
“I morti governano i vivi”, aveva avvertito August Comte. Sembra essere il caso del rapporto di Emmanuel Macron con l’Algeria. Il presidente francese è quello che più sembra essersi impegnato a regolare i conti con il passato. “La colonizzazione è stata un crimine contro l’umanità, una vera barbarie, parte di un passato che dobbiamo guardare in faccia presentando le nostre scuse alle vittime”, ha detto nel febbraio di un anno fa l’allora candidato di En Marche. Poi, lo scorso settembre, Macron ha incontrato la vedova di Maurice Audin, matematico, comunista e attivista anticolonialista, arrestato ad Algeri e scomparso nel nulla. “E’ giunto il momento per la nazione di riconoscere la verità sull’argomento”, ha detto Macron, cui ha risposto il saggista Pascal Bruckner: “Mi piacerebbe anche che lo stato algerino riconoscesse i suoi crimini contro i suoi compatrioti e i francesi dell’Algeria”.
Già nel 2016, in un libro dal titolo Un silence religieux, Jean Birnbaum del Monde aveva affermato che la sinistra è stata cieca rispetto all’islam per non dover riaprire le ferite del conflitto algerino. Gli storici francesi tornano ora a interrogarsi su quel conflitto.
“L’Algeria di allora conteneva molti problemi della Francia di oggi, dal multiculti al terrorismo”, scrive Jean Sévillia
Jean Sévillia se ne esce con il libro Les vérités cachées de la guerre d’Algérie (Fayard), un saggio sulle verità nascoste per confutare la “visione manichea e storicamente corretta” di quel conflitto. “La caricatura che è stata imposta della guerra in Algeria, con la complicità di molti intellettuali di sinistra, sopravvive ancora oggi nei giovani franco-algerini che provengono da questa immigrazione. Nutre il rancore che impedisce la loro piena assimilazione. Da qui l’urgenza di ripristinare una visione più equilibrata di questa tragedia”. La storia è fatta di sfumature, di complessità. E Sévillia non ci sta a sottoscrivere la lettura algerina della guerra d’Algeria.
Sévillia spiega che l’Algeria francese era ingiusta e imperfetta, ma che ancora oggi il paese beneficia delle infrastrutture lasciate dalla Francia. “La Francia ha costruito strade, ponti, dighe. Il lavoro medico è stato straordinario, in un territorio fino ad allora invaso dalle febbri. Le epidemie sono state sradicate. Gli ospedali sono stati costruiti e hanno uno staff medico rispettabile. La facoltà di Algeri ha contato nella storia della medicina francese. Il lavoro scolastico non ha avuto nulla di trascurabile: è stato accolto solo dalla riluttanza della grande maggioranza della popolazione musulmana ad affidare i propri figli a una scuola ‘senza Dio’. La metropoli ha importato in Algeria le moderne tecniche agricole, sconosciute fino ad allora; ha, nel complesso, arricchito tutti gli abitanti di questo paese”. Coloro che hanno vissuto la guerra in Algeria stanno scomparendo, mentre le generazioni più giovani non hanno familiarità con quel periodo. “Questa storia ricorda molti problemi della società francese nel 2018: la questione della integrazione della identità culturale dei musulmani francesi, il legame sociale in una società multietnica, l’islamismo, il terrorismo”.
Sévillia spiega che se il Fronte di liberazione nazionale (Fln) algerino in pubblico parlava di “diritto dei popoli all’autodeterminazione”, nell’Algeria profonda “i suoi reclutatori non hanno esitato a ricorrere al discorso del jihad, la chiamata a colpire gli ‘infedeli’, sia cristiani sia ebrei”. Un programma di liquidazione che verrà completato, trent’anni dopo, dal Gia algerino, con i massacri di religiosi cristiani francesi, le stragi dei lavoratori stranieri, gli attacchi ai “nuovi harki”, i musulmani vicini al regime di Bouteflika. Come quanto accadde il 28 maggio 1957, quando l’esercito francese scoprì 300 algerini del villaggio di Melouza massacrati a colpi di coltello. La loro “colpa”? Essere troppo “moderati”. E chi sa che il 1° luglio 1959 c’era già stato un primo rapimento dei monaci di Tibhirine, fra cui Padre Luc, che verrà decapitato assieme agli altri monaci nel 1996?
In un altro libro appena uscito, Roger Vétillard racconta La dimension religieuse de la guerre d’Algérie. La dichiarazione di indipendenza del 1° novembre 1954 si rivolge a uno stato sovrano, ma “nell’ambito dei princìpi islamici”. Si giura fedeltà sul Corano. Si taglia il naso ai “devianti” colti in fallo. L’omosessuale è punita con la pena di morte, indipendentemente dal grado (il capo militare Bachir Chihani ne farà esperienza). Il nemico è “l’infedele”, la guerra è un jihad. Nelle sue aree l’Fln sostituisce la giurisdizione francese laica con la sharia. Uno dei grandi leader della lotta armata, Lakhdar Ben Tobbal, ammette nelle sue memorie che hanno fatto la guerra ai non musulmani: “Buono o cattivo, non ho fatto differenza”. Un altro leader, Si Abdallah, testimonia: “L’islam era il cemento che ci ha permesso di suggellare la nostra unione…”.
Stragi di francesi ribelli e di musulmani “collaborazionisti”: a Parigi persistono tuttora gravi silenzi su quel conflitto
Gli accordi di Évian del 18 marzo 1962 rifiutarono di considerare i non musulmani come algerini. Diktat imposto dai nazionalisti alla Francia, in cambio dell’autorizzazione a sfruttare il petrolio per dieci anni. Questa dimensione è stata minimizzata, o addirittura totalmente ignorata, dalla sinistra anticolonialista. “L’Fln ha sistematicamente praticato il terrore contro i musulmani filofrancesi e contro gli europei in Algeria. Ma questa realtà è completamente nascosta: denunciamo la tortura dell’esercito francese, mai gli attacchi commessi dall’Fln”, scrive Sévillia. Mentre su Maurice Audin scrive: “E’ accertato che Maurice Audin è morto a seguito di un interrogatorio condotto dall’esercito francese ma questo dramma non può essere isolato dal suo contesto, su cui Macron non ha detto una parola: l’offensiva terroristica del Fln che ha causato centinaia di innocenti vittime civili ad Algeri, spingendo il governo, allora guidato dal socialista Guy Mollet, ad affidare la polizia ai paracadutisti. Per smantellare le reti terroristiche sono stati condotti interrogatori forzati”. Altra cosa è far sembrare che tutto l’esercito francese avesse torturato.
Un altro tabù sono gli “harkis”, i musulmani che prestarono servizio nell’esercito francese. “Saranno sacrificati senza scrupoli”. Tutte le vittime della guerra algerina dovrebbero avere diritto alle stesse considerazioni. Il cessate il fuoco, proclamato il 19 marzo 1962, non porta pace. L’esercito francese disarma e abbandona i suoi ausiliari musulmani. Secondo le stime più caute, sono stati massacrati tra 60 e 80 mila musulmani harkis mentre 45 mila sono riusciti a raggiungere la Francia. A Orano vengono uccisi tra 400 e 700 algerini francesi (spesso dopo essere stati rapiti), a volte sotto gli occhi dei soldati francesi cui è stato ordinato di rimanere inermi. Il 26 marzo 1962, ad Algeri, i soldati francesi aprirono il fuoco su una manifestazione di civili francesi in rue d’Isly (da 46 a 62 morti).
Il 5 luglio del 1962, una grande manifestazione dell’Fln a Orano degenerò, scatenando un’ondata di violenza anti-francese. Uccisioni sommarie, linciaggi e rapimenti. La polizia non si muove. Si parla di almeno trecento morti. Sulla rivista Hérodote, Bernard Alidières, professore a Paris VIII, aveva già riportato alla memoria i “ricordi dimenticati” della guerra d’Algeria nella Francia metropolitana, gli sgozzamenti, le liquidazioni sommarie, i regolamenti di conti tra partigiani immigrati nei quartieri cittadini, alle fermate d’autobus, nei bar, nelle fabbriche dal 1955 al 1962, tutte violenze che hanno ampiamente contribuito alla formazione, in Francia, dello stereotipo dell’arabo violento. Benjamin Stora, a proposito degli scontri tra le due componenti rivali del nazionalismo algerino, che provocarono migliaia di morti, parla di un “fossato di sangue fra gli immigrati”. Gli harkis e i loro discendenti, ospitati in accampamenti di fortuna nel sud della Francia e poi nelle città, sarebbero circa 500 mila. Hanno vissuto un’integrazione difficile in Francia, assimilati agli immigrati dai francesi e assimilati ai francesi dagli immigrati. Il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika li ha chiamati “collaborazionisti”. L’altro tabù della guerra algerina sono i “piedi neri”. Dopo la firma degli accordi di Évian che ponevano fine alla guerra, il governo francese aveva previsto al massimo 100 mila arrivi. Tra marzo e settembre 1962, città e villaggi in Algeria si svuotano tutti della loro popolazione europea, come se una diga si fosse rotta. Le navi verso Marsiglia e Port-Vendres scaricano 700 mila francesi nelle città dell’Esagono, il 70 per cento della popolazione francese in Algeria, che spesso si trovavano lì da quattro generazioni e che la consideravano come la propria “casa”. La maggior parte ha lasciato non appena ha ottenuto un biglietto. Hanno fatto le valigie in fretta e furia. Molti pensano di tornare. Molte porte delle case rimarranno aperte e tante macchine abbandonate con le chiavi ancora sul cruscotto. Altri invece bruceranno il loro veicolo piuttosto che lasciarlo ai “vincitori”. Questo popolo di artigiani, impiegati, commercianti, funzionari cari ad Albert Camus non aveva quasi mai attraversato il confine dell’Esagono. L’ostilità è amplificata da una certa stampa e propaganda goscista, che li presenta come “coloni” che avevano sfruttato i poveri fellah arabi.
E’ il desiderio espresso dall’allora leader indipendentista Ben Khedda di “sloggiare dal territorio nazionale un milione di europei, signori del paese”. L’ideologia “nazionale” escludeva, infatti, la possibilità di un’Algeria multietnica e multiculturale. La “guerra di liberazione” fu prima di tutto una “guerra di purificazione”. Dal primo all’ultimo giorno. Questa strategia del terrore aveva un unico obiettivo: incoraggiare i non musulmani a lasciare l’Algeria, se possibile anche prima dell’indipendenza. Torneranno in Francia tutti gli ebrei algerini. Il 5 agosto 1934, in seguito a un banale alterco tra ebrei e musulmani, 28 ebrei erano stati assassinati nel loro quartiere a Costantina, inseguiti dentro casa, scannati all’arma bianca uomini, donne e bambini. Questo ricordo sarà ben presente nelle menti dei più anziani al momento degli “eventi” d’Algeria, trent’anni dopo. Il 22 giugno 1961, il popolare compositore ebreo della musica arabo-andalusa, “Cheikh Raymond”, alias Raymond Leyris, venne ucciso dai nazionalisti algerini nel mercato di Costantina. L’uccisione del musicista fu il segnale di partenza per gli ebrei. “Preferisco morire qui piuttosto che vivere in Francia”, aveva detto il musicista ebreo a Gaston Ghrenassia. “Se hanno ucciso il migliore amico degli arabi, perché non noi?”, si domandano gli ebrei.
Dall’Algeria partiranno tutti i centomila ebrei dopo l’assassinio del musicista Leyris. L’Fln aveva lanciato loro un ultimatum
Nel giorno del funerale, l’intera comunità gli rende omaggio. Domani si rivedranno? No, se ne andranno tutti. Solo Raymond “resterà”. Il cimitero ebraico che domina Costantina è l’ultima traccia della presenza ebraica. Nonostante gli anni e alcuni atti di vandalismo, il luogo oggi è ben conservato. Sul marmo delle tombe allineate, i nomi dei defunti spiccano in ebraico e in francese. Altrove, i cimiteri ebraici sono stati profanati. Nelle settimane successive all’uccisione del musicista, i 40 mila ebrei di Costantina, alcuni dei quali erano vissuti dalla notte dei tempi in questa città nel nord est del paese, partirono per un esilio senza ritorno.
L’Fln algerino aveva chiesto ufficialmente agli ebrei di rinunciare all’identità francese. La risposta arrivò da André Narboni, segretario generale della Federazione delle comunità ebraiche e membro del comitato centrale del Concistoro di Algeri: “Ci chiedete di tradire una patria di cui siamo cittadini, la Francia, per una patria che non esiste ancora. Intendiamo rimanere fedeli alla Francia, fedeli agli ideali di giustizia e democrazia”. E’ il divorzio e iniziano le stragi.
Merah ucciderà gli ebrei di Tolosa per il cinquantesimo anniversario degli accordi di Évian, che misero fine al colonialismo degli europei
Viene ucciso il rabbino capo di Médéa. Si dà fuoco alla grande sinagoga di Algeri. Tra la fine del 1961 e il giugno del 62 ci saranno omicidi seriali di rabbini e personalità ebraiche, attacchi contro sinagoghe e siti culturali ebraici. 130 mila ebrei lasceranno in totale l’Algeria e contano nelle loro fila personalità di alto livello, tra cui Robert Castel, Patrick Bruel, Alexandre Arcady o Jean-Pierre Elkabbach. Dal 1962, tutti loro si dirigono verso il continente, contribuendo al risveglio della comunità ebraica francese. Hanno scelto la Francia, a differenza dei marocchini o dei tunisini, che hanno in gran parte messo gli occhi su Canada e Israele. E saranno loro a morire negli attacchi di Parigi del 2015 all’Hypercacher. L’antisemitismo scorreva come un fiume nella storia degli eroi della resistenza algerina, come il colonnello Tahar Zbiri, leggendario comandante di guerriglia, che nella futura questione di Israele sarebbe stato il più fanatico estremista, invocando “lo sterminio” degli ebrei. Le comunità figlie della decolonizzazione algerina – i musulmani e gli ebrei – vivono oggi in una continua tensione nei quartieri “sensibili” di Francia e che spesso culmina nella fuga degli ebrei, come in un secondo esodo, dopo quello del 1962.
Lo storico Andrew Hussey ha suggerito che l’oscuro retaggio coloniale francese sta alimentando una nuova “intifada francese” sul suolo nazionale. “Per quanto i media o gli intellettuali francesi cerchino di ridurre il problema a questioni familiari, il fatto è che la Francia è ancora sotto attacco da parte degli eredi del progetto coloniale francese”, ha scritto Hussey nel suo libro The French Intifada. Un altro storico, Pierre Vermeren, professore di storia del Maghreb all’Université Paris-I-Panthéon-Sorbonne, nel suo libro Le Choc des décolonisations: De la guerre d’ Algérie aux printemps arabes (edizioni Odile Jacob), offre un altro resoconto della decolonizzazione francese alla luce della “primavera araba”. Gli omicidi a Charlie Hebdo e i massacri del Bataclan segnano il ritorno dei metodi terroristici che avevano contraddistinto la battaglia di Algeri. Mohammed Merah ha assassinato i bambini ebrei a Tolosa il 19 marzo 2012, proprio il giorno del cinquantesimo anniversario degli accordi di Évian sull’Algeria. Nel suo libro Terreur dans l’Hexagone, anche Gilles Kepel sottolinea questo legame fra la strage di Tolosa e il ricordo algerino. Allo stesso modo, i numerosi casi di radicalizzazione terroristica citati dal giornalista David Thomson nel suo libro Les revenants raccontano di giovani algerini radicalizzati che credono di avere il diritto e il dovere di uccidere o mutilare tutti coloro che sono designati come “nemici della loro religione e della loro gente”, senza provare alcuna responsabilità.
Vermeren è stato il primo a notare che tutti i jihadisti franco belgi venivano dalla regione marocchina del Rif, il bacino fornitore dei ribelli durante il colonialismo. I fantasmi del XIX secolo continuano a perseguitare la Francia. Perché, come ha scritto Guy Hennebelle, fondatore della rivista Panoramiques, “il dualismo sadomaso della cultura laico cristiana del senso di colpa e il risentimento arabo musulmano non porta a nulla di costruttivo”. Porta soltanto alla peste dell’odio.
Una parte dell’attuale caos francese ha origini là, nell’Algeria che diventava monoculturale mentre la Francia si avviava al multiculturalismo. Tutti i conflitti della casbah di Algeri si sarebbero riversati nelle banlieue di Parigi. Forzando un po’ la mano, qualcuno si è domandato se l’Algeria di ieri non sarà la Francia di domani.