Brexit story, ultimo atto
C’è l’accordo tra Londra e Bruxelles, ora la May deve convincere i suoi ministri. Poi toccherà Parlamento britannico dove c’è un’alleanza tra “no deal” e “no Brexit”
Manca poco, pochissimo, è una questione di ore e l’accordo sulla Brexit avrà una forma, un aggettivo, forse persino un nome. Oggi Theresa May, premier britannico, convoca i suoi ministri per presentare l’accordo raggiunto con gli europei sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Non sarà un incontro facile per la May, il livello di riottosità nel suo cabinet è alto e lei arriva stremata da mesi di piccoli passi avanti e tanti blocchi. Ma intanto con l’Europa un primo accordo è stato trovato. A fine novembre si potrebbe mettere il timbro conclusivo al negoziato in sede europea e mai come ora c'è stata tanta sintonia tra i paesi dell'Unione europea e il governo di Londra.
L’obiettivo è scongiurare un no deal, l’ipotesi peggiore sia per Bruxelles sia per il Regno Unito non soltanto perché sono state investite tantissime risorse in queste trattative e un finale funereo sarebbe davvero uno spreco, ma anche perché l’incertezza a quel punto rischierebbe di diventare ingovernabile. Così, in dirittura di arrivo, molte incomprensioni e molti dispetti sono stati digeriti (o forse semplicemente accantonati), gli sherpa si sono incontrati e confrontati in un clima di collaborazione inusuale e persino il caponegoziatore europeo Michel Barnier, il francese più detestato del Regno, ha utilizzato parole rassicuranti, addirittura promettenti.
Buon umore tra gli sherpa, ci sono persino parole promettenti. Oggi la May cerca di convincere i suoi ministri, i più riottosi
Tutto può accadere, perché di fatto per ottenere un risultato oggi sono state procrastinate alcune decisioni importanti e restano parecchie ambiguità. Finché non c’è un testo condiviso definitivo non c’è certezza – e nell’ultima settimana ne sono circolati talmente tanti che ora anche le cose già stabilite sembrano più confuse – e nessuno azzarda più di un sorriso. Ma se si è trovato un modo per comunicare tra Bruxelles e Londra – e non era scontato – l’atto finale di questo tormentato divorzio sarà tutto girato in territorio britannico. E qui di sorrisi ce ne sono pochini.
La May sta portando avanti il suo piano, che è quello firmato dai ministri del suo governo a luglio, nella tenuta estiva dei Chequers e che è la versione più soft che un governo conservatore animato da molti brexiteers potesse produrre. È un piano di compromesso, come è naturale che sia, e quindi, come spesso accade alle vie di mezzo, non piace a nessuno: per i falchi della Brexit è troppo debole, “un atto di resa” all’Europa, una Brexit soltanto di nome, una capitolazione umiliante di fronte agli europei inutilmente punitivi; per i remainers è la dimostrazione ultima del fatto che l’uscita è talmente difficile e costosa che tanto vale non farla.
Se pure un governo euroscettico ha dovuto abbassare di molto l’ambizione del suo “Brexit means Brexit”, perché continuare a insistere con una scelta tanto sciagurata? Così i sostenitori del “no deal” e quelli della “no Brexit” si ritrovano alleati: continuano ad azzannarsi nelle trasmissioni televisive e sui social, continuano a detestarsi e a considerarsi reciprocamente colpevoli della iattura che attende il Regno Unito dopo due anni di trattative umilianti, continuano ad avere sogni diversi per il futuro del paese. Ma lo strumento per arrivare ai loro obiettivi finali è identico: fermare la May.
I falchi brexiteers e i remainers hanno obiettivi diversi ma lo stesso strumento di breve termine: bocciare il piano della May in Parlamento
La premier ha mostrato una resistenza inimmaginabile, e qualche giorno fa sul New York Times è stato pubblicato un commento che in sintesi sosteneva: e se fosse lei, il genio? Genio non si sa, ma certo rimanere in piedi in mezzo agli sgambetti di tutti – i tuoi colleghi ministri, i tuoi parlamentari, i tuoi avversari, i tuoi ex collaboratori, gli europei – è più di un esercizio di equilibrismo. Bisognerebbe mettersi lì e contare i golpe tentati e falliti, i retroscena pubblicati sulla “fine della May”, i commenti sulla debolezza della premier, sulla sua mancanza di empatia, sui suoi limiti: ne verrebbe fuori il ritratto di una leader ostinata, che è un po’ l’esatto opposto di quel che si è sempre raccontato.
L’ultima sua sfida però, ammesso che riesca a trovare davvero l’accordo con l’Ue, ha poco a che fare con la sua natura: in Parlamento, dove si deve votare il deal, è tutta una questione di numeri. Ed è vero che i riottosi si possono convincere, e che anzi la statura di un leader si misura pure con i numeri che riesce a raccogliere, ma in Parlamento l’alleanza tra i “no deal” e i “no Brexit” è micidiale: non potrebbe resisterle nessuno.
Ieri sera davanti a Westminster c’è stata una manifestazione del People’s Vote, il movimento che chiede un secondo referendum sulla Brexit (in cui ci sia anche la possibilità di dire: non facciamola più, questa Brexit). Il consenso del People’s Vote è altissimo, ma non è soltanto di piazza: l’ultimo ministro che si è dimesso, Jo Johnson, fratello di Boris, ha scritto ieri sul Times un accorato appello a un secondo voto (casa Johnson è la sintesi esatta del confronto parlamentare: Boris vuole un no deal, Jo vuole un voto, insieme sono contro la May).
Lo stesso Tony Blair, che fin da subito si è fatto araldo della possibilità di cambiare idea sulla Brexit, dice e scrive che in Parlamento chi è contrario all’uscita dall’Ue deve votare contro la May. Con lui c’è tutto l’establishment moderato del Partito laburista, ci sono i liberaldemocratici e anche molti conservatori. Jeremy Corbyn, leader del Labour, non vuole un secondo voto, vuole una nuova elezione per negoziare meglio l’uscita dall’Ue e, con lui, i laburisti a favore della Brexit ora dicono che non voteranno a favore della May. Gli obiettivi finali sono divergenti, ma tutte le strade implicano come condizione una bocciatura dell’accordo del governo.
L’effetto finale di questa strana alleanza potrebbe essere catastrofico. Al momento l’idea di un secondo referendum è talmente abbagliante da sembrare inevitabile, ma è la meno praticabile di tutte le opzioni. Per un semplice fattore temporale – ci vuole un tempo tecnico per organizzare il referendum, e bisogna chiedere di far slittare la data del 29 marzo 2019, che è quella dell’inizio ufficiale della Brexit – e perché ci vuole un consenso parlamentare che ancora non c’è. Se si esclude un secondo voto e se il piano della May sarà bocciato, l’ipotesi più concreta diventa la più tremenda: il no deal. Tante trattative, tanti rospi ingoiati, tante speranze disilluse, e si finisce con l’ipotesi prevista dal Trattato in assenza di negoziato: che beffa.