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Referendum chiama referendum, e il Regno rischia un effetto domino che potrebbe disintegrarlo

Luciana Grosso

Il People’s Vote, il voto indipendentista in Scozia, l’Irlanda del nord. Gli inglesi potrebbero scoprire che c’è sempre qualcuno più “leaver” di te

Milano. Referendum chiama referendum. E, giorno dopo giorno, si fa strada l’ipotesi che la Brexit non abbia assestato un fendente solo all’Unione dei 27 stati europei, ma anche a quella dei quattro regni di sua Maestà, Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord. In uno scenario imprevisto ma prevedibile, la loro unione potrebbe uscirne disintegrata perché, come fosse una moda, la Brexit ha innescato una reazione a catena di richieste di contro referendum, promossi da chi di Regno Unito senza Europa Unita proprio non vuole saperne.

 

Ci sono (e li abbiamo visti in piazza) gli inglesi che non ci stanno a essere buggerati da Nigel Farage e Boris Johnson e vogliono cancellare la Brexit. Ci sono gli scozzesi che preferiscono il governo di Bruxelles (o, a dirla tutta, quello di chiunque) a quello di Londra e vogliono approfittare della confusione per infilare la porta e (ri)provare a andarsene. Ci sono infine gli irlandesi, che non hanno voglia di vedersi passare un confine sotto casa e fare da terra di confine ibrida tra Europa e Regno Unito e credono sia giunto il momento, dopo vent’anni di accordi di Venerdì Santo, di riunificarsi al resto della loro isola.

 

A oggi, sia chiaro, tutti questi referendum sono solo ipotesi nell’aria. Nessuno è stato chiesto ufficialmente e per nessuno è stato avviato l’iter di approvazione, ma di nessuno di loro si potrebbe dare per scontato il risultato. Il primo (ipotetico) voto è quello sulla Brexit. Per ora mancano i voti in Parlamento e c’è il sospetto che nessuno lo voglia davvero. Tanto che l’ipotesi più ragionevole sembra quella da mal di testa proposta dalla Tory Justine Greening, che ha proposto un “preferendum”, ossia un voto nel quale venga chiesto agli elettori di mettere in ordine di preferenza le ipotesi di “no deal”, “deal” e “remain”.

 

Il secondo e altrettanto improbabile voto è quello scozzese. I discendenti di William Wallace non hanno mai digerito la sconfitta (44 per cento contro 55), per quanto chiara, del 2014. Ancor meno digeriscono ora l’uscita dall’Ue, visto che in Scozia il remain ha stravinto con il 62 per cento. “Abbiamo votato per rimanere nell’Ue perché non ci piace essere sudditi di Londra – dice al Foglio Mark Whittet, leader dello Scotland Referendum for Indipendence party, gruppo le cui posizioni stanno tutte nel nome – e il governo di Bruxelles mitiga per noi quello di Londra. Per questo ora vogliamo rivotare e se Westminister non ce lo permetterà, dovremo fare come i catalani, convocare un voto da soli, autoproclamarci indipendenti e avviare l’iter di riconoscimento e adesione all’Ue”, conclude pugnace ma senza crederci nemmeno un po’. Anche la premier scozzese Nicola Sturgeon, in realtà, ha un piano per lasciare Londra al suo destino, ma per quanto più ragionevole, appare comunque difficile da realizzare. L’idea è quella della doppia chiave: si rivota su Brexit, ma quale che sia il risultato, affinché questo sia considerato valido, tutti e quattro i regni devono essere d’accordo. Se così non fosse, la Scozia potrebbe chiedere di nuovo di votare per l’indipendenza.

 

Infine c’è un terzo voto, il più probabile e per questo il più delicato: quello che riguarda l’Irlanda del nord. Qui le cose sono complicatissime e per capirle occorre tener conto di un po’ di fatti, anche se si contraddicono tra loro. Il primo fatto: nel 2016 l’Irlanda del nord ha votato 56 per cento a 44 per il remain. Il secondo fatto: nel 2017 le stesse persone hanno dato la maggioranza al Dup, il partito filoinglese e di destra che oggi fa da indispensabile stampella a Theresa May. Il terzo fatto: il confine con l’Irlanda del nord è il punto più complicato e nevralgico di tutta la discussione sulla Brexit, e il Dup al solo sentir parlare di confine e di distinzione tra Irlanda del nord e Gran Bretagna minaccia di far cadere il governo. Un nodo di Gordio, nel quale si inserisce il quarto fatto: negli accordi del Venerdì Santo c’è scritto che il Regno Unito è tenuto a far celebrare un referendum per la riunificazione dell’Irlanda se i sondaggi danno ragione di ritenere che la maggioranaza delle popolazione la desideri. E questo potrebbe essere il caso. E gli inglesi potrebbero ritrovarsi a constatare l’amara verità che c’è sempre qualcuno più “leaver” di te.

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