Dov'e' il commander in chief Donald Trump?
Non vuole visitare le truppe in Afghanistan, usa i soldati in campagna elettorale, polemizza con gli eroi di guerra. Così il presidente dissipa il credito che aveva con i militari
New York. A fine gennaio 2017 un plotone di Navy Seal issò una bandiera blu della campagna elettorale di Donald Trump con il motto “Make America Great Again” su un blindato Humvee e viaggiò per circa duecento chilometri in autostrada così, con la bandiera al vento, durante uno spostamento normale tra due basi in America. Erano passati pochi giorni dalla cerimonia d’inaugurazione della nuova Amministrazione Trump e anche se il plotone fu punito il mese dopo – perché un convoglio militare non può girare con una bandiera politica, perdipiù in autostrada – il messaggio era chiaro. Il patriottismo, il richiamo nostalgico pure se posticcio a un’America grande, la tentazione del nazionalismo ambiguo, il diritto alle armi, l’opposizione per postura naturale ai fighetti liberal sono tutti temi che trovano ospitalità calorosa nelle Forze armate.
Trump durante la campagna elettorale aveva fatto nel giro di dieci giorni un paio di gaffe capaci di far storcere il naso alla gente in uniforme. Prima aveva detto “a me piacciono quelli che non si fanno catturare” riferendosi al rivale repubblicano John McCain, pilota catturato e torturato per cinque anni in Vietnam, ed era stato un commento derisorio che soltanto uno con la faccia tosta del candidato repubblicano poteva pronunciare senza conseguenze. Poi aveva attaccato la famiglia di un capitano dell’esercito musulmano che era morto da eroe in Iraq nel 2004 proteggendo i suoi soldati da un’autobomba.
Flynn, McMaster, Mattis, Kelly: il presidente ha nominato un’Amministrazione di generali, un patrimonio di fiducia sprecato
Il padre e la madre pachistani e diventati cittadini americani erano intervenuti alla Convention democratica, avevano accusato Trump di non avere mai fatto alcun sacrificio per il paese, lui in un’intervista di rimando aveva chiesto: “Perché la madre non ha parlato? Forse non le era permesso?”, implicando che non avesse parlato perché impedita da una qualche costrizione religiosa. Come sappiamo, le due gaffe si persero presto nel diluvio delle altre gaffe che vennero dopo.
Dopo l’elezione il presidente che aveva saltato il servizio di leva e la chiamata per il Vietnam grazie a un certificato medico molto accomodante scelse di nominare alla Casa Bianca un numero insolito di generali. Mike Flynn, comandante delle forze speciali in Iraq che fu scelto come consigliere per la Sicurezza nazionale e poi dovette dimettersi subito per i contatti con il governo russo. Herbert McMaster, successore di Flynn e considerato uno degli strateghi migliori della seconda fase della guerra in Iraq – quando gli americani cercavano di districarsi da una situazione diventata impossibile da sostenere – e molto disprezzato da Trump che lo derideva per i vestiti da “piazzista di birre”; resistette al suo posto per tredici mesi. James Mattis, ex comandante dei marine conosciuto agli addetti ai lavori per essere un’insolita figura di monaco-guerriero, senza famiglia, con una casa che contiene settemila saggi e volumi, fu messo in abiti civili a capo del Pentagono.
Il suo nome in codice in Iraq era “Chaos”, i giornalisti gli avevano affibbiato il nomignolo “Mad Dog Mattis” per la durezza, oggi alla Casa Bianca ha il ruolo quasi ufficiale di voce della saggezza che trattiene il presidente dal prendere decisioni troppo impulsive. Trump quando è in mezzo al suo clan lo deride così: “Moderate Dog Mattis”. E poi c’è John Kelly, anch’egli ex generale dei marine e ora chief of staff, che ha tentato di portare ordine alla Casa Bianca creando un sistema di separazione tra Trump e la corte di cattivi suggeritori che prima tentava di sgattaiolare nello Studio ovale per vedere di persona il presidente e approfittare della sua tendenza a prendere decisioni immediate.
Kelly è uno che tutte le sere fa il giro del perimetro della Casa Bianca per assicurarsi di persona che non ci siano falle nel sistema di sicurezza, è dato per spacciato ogni mese, forse ogni settimana, ma è ancora al suo posto. Insomma, che le forze speciali più prestigiose della nazione, i Navy Seal celebrati dai film, a gennaio andassero in giro con una bandiera #Maga sembrava quasi non appropriato, ma comprensibile. Trump partiva con un punteggio alto agli occhi dei soldati.
Domenica Trump ha attaccato William McRaven, eroe di guerra che ha ucciso Bin Laden, perché l’ammiraglio ha osato criticarlo
Tuttavia, in questi quasi due anni di governo lo stile politico del presidente o meglio la mancanza di stile politico ha divorato quel punteggio di cui godeva all’inizio. Non è una questione di decisioni pratiche, come quando voleva che tutti i soldati si ritirassero di colpo dalla Corea del sud perché non capiva cosa facessero laggiù (la decisione fu annullata perché Mattis gli spiegò che grazie alla presenza delle basi americane a ridosso del confine con la Corea del nord l’America poteva rilevare la partenza di missili con una buona mezz’ora di anticipo, che è senz’altro preziosa se i missili sono diretti verso la costa della California).
È piuttosto l’incapacità di trattare con i militari e di mettersi sulla testa il cappello da commander in chief – cosa che prima di lui è riuscito a fare persino Barack Obama, un professore di legge di Chicago che aveva molta poca dimestichezza con il Pentagono e una volta fu assalito dai repubblicani perché aveva risposto al saluto dei soldati con un bicchiere di caffé nell’altra mano. Il punto debole di Trump è la mancanza di gravitas, quella compostezza e serietà che i latini chiedevano ai loro leader come requisito minimo. Non vuole caricarsi sulle spalle la credibilità per interpretare il ruolo di comandante.
Trump non va a visitare le truppe impegnate nelle missioni in Iraq e in Afghanistan perché, secondo i suoi collaboratori, non intende validare con la sua presenza quelle operazioni che lui considera “a total shame”, una vergogna totale. C’è da chiedersi come questo si rifletta sul morale delle migliaia di truppe che sono esposte al rischio di combattimenti in Afghanistan, Iraq e Siria. Cosa dovrebbero pensare dell’idea di morire per una “total shame”? Da quando è cominciato il mandato, circa sessanta militari americani sono stati uccisi mentre erano impegnati all’estero. Se il presidente non è convinto, perché dovrebbero esserlo i suoi subordinati? E il punteggio iniziale scende.
Finora, il commander in chief si è rifiutato di visitare i soldati in Afghanistan e Iraq, perché considera le guerre laggiù “a total shame”
Quando quattro uomini delle Forze speciali sono stati uccisi in un’imboscata dello Stato islamico in Niger Trump non è andato a ricevere le bare che rientravano in patria. Altri punti in meno. Un mese fa il comandante degli americani è sceso da Kabul a Kandahar, in Afghanistan, per incontrare il capo delle forze di sicurezza locali, ma un infiltrato talebano con la divisa da poliziotto ha preso un fucile d’assalto in mano e ha sparato in mezzo al mucchio di ufficiali americani e afghani. Un generale americano è rimasto ferito, il Pentagono ci ha messo tre giorni prima di confermare la notizia. Insomma, le condizioni di lavoro sono sempre difficili e ci vorrebbe un presidente che si prende cura del morale dei suoi.
Ieri il Washington Post annunciava che Trump starebbe parlando con il suo staff della possibilità di fare una visita alle truppe e che starebbe parlando anche della possibilità di essere ucciso durante la visita, che suona come un timore strano considerato che il dispositivo di sicurezza predisposto dalla Casa Bianca in questi viaggi è probabilmente uno dei più impenetrabili al mondo. Se finalmente lo facesse, sarebbe il minimo. George W. Bush e Obama sono andati quattro volte a salutare i soldati schierati in Afghanistan, Trump è riuscito a disertare anche la tradizionale visita al cimitero dei caduti di Arlington, venti minuti in macchina dalla Casa Bianca.
Si è scusato dicendo che il giorno prima era stato a un altro cimitero dei caduti a Parigi, ma quello era stato il viaggio in cui non era andato alla celebrazione più importante – la visita al cimitero dei soldati americani di Aisne Marne – perché pioveva e l’esercito francese lo aveva preso in giro con la fotografia di un fante che si esercita sotto l’acqua e la scritta: “Piove, ma non importa, siamo sempre pronti”. Altri punti in meno. Il comandante della forza militare più pericolosa della storia dell’umanità non dovrebbe diventare lo zimbello dei francesi.
Il punto debole di Trump è la mancanza di gravitas, quella compostezza che i latini chiedevano ai leader come requisito minimo
A ottobre il presidente ha ordinato lo spostamento di quasi seimila soldati sul confine meridionale, per contrastare l’arrivo della carovana dei migranti – che è stato il tema forte della sua campagna elettorale per le elezioni di metà mandato. Trump è riuscito a ottenere dal Pentagono che non fossero mandati soldati della Guardia nazionale, quindi richiamati in servizio in caso di necessità, ma proprio militari dei reparti in servizio attivo. Però non è riuscito a ottenere che fossero schierati direttamente per far fronte ai migranti, le leggi federali non consentono ai militari di impegnarsi in queste attività dentro i confini nazionali.
Così i soldati sono andati a costruire tendopoli per gli uomini della Guardia di frontiera e poi sono rimasti in attesa, mentre i commentatori sia democratici sia repubblicani spiegavano l’ovvio in tv, che quella era una missione decisa dal presidente soltanto per ragioni di campagna elettorale. Nome in codice: “Faithful Patriot”, ma il Pentagono ha ordinato ai suoi portavoce di non usare più quel nome a partire dal 7 novembre, giorno delle elezioni. Contatti fra soldati e giornalisti vietati, il comando ha fatto soltanto uscire molte foto di uomini in tenuta da guerra (quindi elmetto e giubbotto antiproiettile) che stendevano filo spinato. Due giorni fa è arrivata la notizia che la missione militare ha ricevuto l’ordine di rientrare. Non importa se la carovana dei migranti deve ancora arrivare, anzi l’avanguardia sta arrivando in questi giorni, i soldati di “Patriota fedele” cominciano le operazioni di disimpegno. Il loro scopo si esauriva con il voto di metà mandato.
Domenica Trump ha polemizzato contro William McRaven, ex capo del comando Forze speciali degli Stati Uniti, ex Navy Seal, l’uomo che ha organizzato il raid dei Navy Seal in Pakistan per uccidere il capo di al Qaida Osama bin Laden nel maggio 2011. McRaven, che in questo periodo sta combattendo contro il cancro, gode di uno status leggendario presso gli uomini delle Forze speciali. E qui si torna all’inizio, ai Navy Seal che issavano la bandiera del “Make America Great Again”. Il presidente accusa McRaven di essere un sostenitore di Hillary e di Obama, e anche di averci messo troppo tempo ad arrivare a Bin Laden.
Si tratta di accuse senza fondamento, perché McRaven non si è schierato politicamente e non era responsabile per l’individuazione del covo di Bin Laden, ma soltanto dell’uccisione. Il lavoro per scoprire dove si trovava il terrorista più ricercato era affidato, naturalmente, ai servizi segreti e non ai soldati. L’ex comandante ha una grande colpa: quella di aver detto che la frase a effetto di Trump sui giornalisti (“sono i nemici del popolo”) è sbagliata. Il presidente ammira i militari e i generali perché sono dei duri disciplinati, ma quando quelli lo criticano – perché non sopportano le sue uscite e le sue decisioni impulsive – allora si crea il cortocircuito. Persino i più patrioti del paese diventano avversari da ridicolizzare. Persino l’uomo che ha comandato la missione contro Bin Laden.