Gli impressionabili passino oltre: a Westminster è l'ora dei macellai
Ricatti, minacce e golpisti che urlano. La May a caccia di voti per fare passare la Brexit in Parlamento
Milano. Julian Smith è l’uomo da seguire nelle prossime due settimane, il chief whip del Partito conservatore britannico, colui che dovrà convincere i parlamentari ribelli dei Tory a non ribellarsi, a rimangiarsi tutto – la parola data, le promesse fatte, i memo pubblicati negli ultimi due anni – e a mettersi in fila ordinati dietro al governo di Theresa May per votare “il miglior accordo possibile” sulla Brexit, che è anche l’unico che c’è.
Al momento il compito di Smith pare destinato all’insuccesso: l’accordo negoziato da Londra e approvato dagli europei non è nemmeno lontanamente vicino ai 320 voti che servono per ottenere il passaggio parlamentare. Considerando che quindici laburisti potrebbero a loro volta ribellarsi alla linea di partito che è per il no all’accordo (è un’ipotesi già pesante), i conservatori sarebbero a 260 voti circa. Il conteggio dei ribelli è questo: ci sono venti parlamentari che si sono dimessi da incarichi di governo perché in opposizione sulla Brexit. Poi ci sono i dieci parlamentari del Dup nordirlandese, che hanno già detto che non daranno mai il consenso al progetto Brexit della May. E siamo a quota 30.
Poi ci sono i golpisti, quelli che hanno firmato la lettera per la mozione di sfiducia minacciata la scorsa settimana dal brexiteer Jacob Rees-Mogg: lui sperava di raggiungere quota 48, il minimo per far scattare la sfiducia, ma è arrivato soltanto a 26 – di cui quattro che sono tra i dimissionari, quindi al conteggio dei ribelli vanno aggiunti altri ventidue parlamentari. Così si arriva a 52. Poi ci sono altri 36 conservatori che hanno detto, scritto, urlato di non voler votare l’accordo – il totale è 88, e c’è chi dice che il valore è sottostimato.
In realtà la storia di questa Brexit dimostra il contrario, cioè che i golpisti, i boicottatori, i ribelli sono sempre stati sovrastimati: hanno riempito le pagine dei giornali con le loro minacce, con i loro piani alternativi strampalati, con i loro inganni e con i loro “enough is enough”, ma poi non sono mai riusciti ad assestare il colpo decisivo. Ma anche al netto della mitomania brexitara, la ribellione pare troppo grande per essere domata.
Qui entra in scena Julian Smith, con il suo viso affilato, l’aria perennemente corrucciata, e qualche munizione nel suo arsenale. Matthew D’Ancona, ex direttore dello Spectator (magazine conservatore) oggi editorialista del Guardian, descrive la missione di Smith in questi termini: “Lui e il suo staff devono usare ogni incentivo e ogni minaccia immaginabili (...). Ai parlamentari che si oppongono alla May verrà chiesto se i loro familiari avrebbero piacere a leggere sui giornali indiscrezioni sessuali sul loro conto. Buona parte di questo lavoro sporco sarà demandato a degli intermediari, ma ogni tattica disponibile sarà utilizzata, è una questione di vita o di morte, non è la stagione di chi si impressiona facilmente”.
Buona parte della brutalità di quest’opera di convincimento, se si può chiamare così, non sarà visibile all’esterno, ma soltanto nel momento della conta – previsto tra due settimane, l’11 dicembre. Però, per quanto il lavoro sporco possa avere un margine di successo, sessanta parlamentari sono parecchi da persuadere, e il governo non ha nemmeno un gran sostegno mediatico: guardando la copertura dell’ultima settimana, ci sono due giornali che sembrano spingere per l’accordo May, il Financial Times, in modo cauto, e il Daily Mail, in modo urlato, scontando però il fatto di aver tradito la linea adottata fino al cambio di direttore di qualche mese fa (il Mail è sempre stato molto falco sulla Brexit, ora non più).
Mentre si prepara il piano B, c’è chi conta sul fattore umano: i timori, gli errori di prospettiva, la mancanza di coraggio. E per far forza alla May alcuni le ripetono la frase che Margaret Thatcher disse negli anni Novanta all’allora giovane euroscettico John Whittingdale: “Il tuo problema, John, è che la tua spina dorsale non arriva fino al cervello”.