Brexit, la finzione del Regno
Le stime economiche sulla Brexit sono tremende, ma il danno vero è cedere alle logica della paura in stile 2016
Milano. L’unico modo per guardare i grafici pubblicati dal ministero del Tesoro britannico senza farsi prendere dal panico è capovolgerli. Finzione per finzione – perché questa è stata finora la Brexit, un modello con tante ipotesi non verificate, una finzione più o meno retorica, sicuramente molto ideologica – almeno questa sarebbe digeribile, se solo fosse possibile ignorare ancora una volta numeri, dati, previsioni. Comunque vada, la Brexit è un costo, stare dentro l’Unione europea conviene, il Tesoro lo dice in modo secco, non c’è una cifra rassicurante che sia una, senza considerare che il modello del “piano di governo” non si riferisce a quello approvato domenica a Bruxelles, bensì al piano dei Chequers proposto a luglio, e già defunto.
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Le premesse sono tutte opinabili, l’esito finale è inappellabile: per ben che vada, la Brexit comporta una perdita di pil del 3,9 per cento in quindici anni, cioè ogni persona perderebbe ogni anno 1.100 sterline di potere d’acquisto rispetto a quanto accadrebbe se il Regno Unito restasse nell’Ue. Senza barriere al commercio e con la libera circolazione delle persone, il danno sarebbe ridotto allo 0,9 per cento, ma sono ipotesi enormi, e al momento irreali (gli accordi di libero scambio con il resto del mondo valgono comunque lo 0,2 per cento del pil in 15 anni). Se si dovesse arrivare a un non-accordo, la perdita di pil in quindici anni sarebbe pari al 9,7 per cento. Per la Banca d’Inghilterra il declino è ancora più immediato e brutale: 10,5 per cento di pil perduto nei prossimi cinque anni, se si esce in modo disordinato dall’Ue.
Gli inglesi sono diventati allergici alle previsioni, non hanno tutti i torti, ma l’effetto di queste previsioni è di aver ricreato quel clima di paura sul futuro che tanto peso ebbe nella campagna referendaria del 2016 (si chiamava “project fear”, i pro Brexit e gli anti Brexit se lo rimpallavano, alimentandolo a ogni passaggio), condito con quella spocchia à la deputata Castelli: questo lo dice lei. Tu dici che sarà un disastro, io dico che non lo sarà, ognuno gira i grafici a proprio modo, a finzione finzione e mezza: l’ex ministro per la Brexit David Davis stamattina era l’ospite d’onore di un incontro dal titolo “Previsioni del Tesoro: fatti o finzione?”.
L’errore più grande che oggi il Regno Unito può fare è di arrendersi ancora una volta alle logiche del 2016. Sono passati due anni e mezzo dal voto del referendum, il governo di Theresa May ha negoziato un accordo con i 27 paesi dell’Ue che sarà sottoposto al voto parlamentare l’11 dicembre. Al momento i voti non ci sono, è necessario prepararsi a un piano B che ha a che fare con il merito dell’accordo e con la leadership della May. Per modificare l’accordo, introducendo varianti in stile Norvegia, c’è bisogno di tempo e questo porta a un prolungamento dell’articolo 50 (per un massimo di altri due anni). Per la leadership della May i casi sono quattro: una mozione di sfiducia con una sostituzione a Downing Street (sul sostituto non c’è certezza); un’elezione anticipata; un secondo referendum (il cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, in un’intervista alla Bbc ha detto che questa soluzione si fa via via più “inevitabile”, ma il suo boss, il leader del Labour Jeremy Corbyn, non è d’accordo); la tenuta della May, che riapre il negoziato dopo aver chiesto il prolungamento dell’articolo 50. In tutti i casi la storia della Brexit è ancora lunga, ma se prevale la paura, se prevale “questo lo dice lei”, il rischio del no deal diventa elevato. Si chiama Brexit accidentale, ed è la vittoria della finzione.