In morte di un ribelle gentile
Era la voce piena d’ironia dei siriani che non vogliono né il regime di Assad né i terroristi di al Qaida e per questo è stato ammazzato. Ritratto di Raed Fares visto da vicino
Raed Fares era un attivista democratico in Siria ed è stato ucciso venerdì scorso molto probabilmente da alcuni sicari di al Qaida, che l’hanno seguito in macchina al mattino e poi quando è sceso dalla sua auto gli hanno sparato. Del resto ci avevano già provato nel 2014, un proiettile lo aveva colpito a un polmone, lui aveva reagito con la solita ironia: “Il dottore dice che sopravviverò grazie alle dimensioni del mio naso”. Raed era un attivista della prima ondata, quella del 2011, quando centinaia di migliaia di persone in tutta la Siria erano scese nelle piazze perché non volevano più vivere sotto un governo che prende a modello politico la Corea del nord (non è una boutade: il padre di Bashar el Assad, Hafez, ebbe intensi scambi con la dinastia Kim che durano ancora oggi molto dopo la sua morte) e applica quello stesso schema brutale sulla riva del Mediterraneo: il culto della personalità, l’occupazione totale e inflessibile dei media, il controllo dei servizi segreti – anzi, di quattro agenzie dei servizi segreti in competizione fra loro – su ogni aspetto della vita quotidiana dei siriani, la militarizzazione della società, la mancanza di diritti civili.
I turisti che giravano per i banchi dei mercatini della capitale e facevano il bagno nelle piscine degli alberghi non se ne rendevano conto – che magnifico paese arabo, la Siria – ma qualsiasi tentativo di riformismo politico o anche soltanto il sospetto di volere riforme oppure una delazione costava al disgraziato di turno la sparizione per anni in una delle prigioni di isolamento piazzate in zone remote. E ora che il regime, grazie agli aiuti stranieri di Iran e Russia, controlla di nuovo la maggioranza del paese, è tornato con forza quel tipo di fanatismo marziale che in qualche modo ci urta meno perché almeno è laico. Adesso all’ingresso di Latakia, la capitale vera del potere degli Assad, c’è la statua di uno scarpone messa lì per celebrare il trionfo della forza militare che ha soggiogato di nuovo il paese – e infatti il gesto simbolo dei soldati governativi quando vincono è calpestare la faccia dei nemici e farsi fare le foto con gli scarponi sulla testa dei prigionieri.
Gli abitanti di Latakia depongono fiori alla base della statua. Raed e molti altri sotto quello scarpone non ci volevano più stare. “Guarda – diceva indicando dal finestrino della macchina mentre guidava a velocità folle per le zone liberate (nessuno lo ricorda più, ma la stragrande maggioranza del territorio fu liberato dai gruppi ribelli all’inizio, nel corso del 2012 e del 2013, e il fallimento politico di quei gruppi e il dominio degli estremisti arrivò dopo) – guarda i tetti delle case, guarda quante parabole, ora possiamo guardare quello che vogliamo, prima potevi guardare soltanto la tv di stato: Assad che incontra il capo di stato Tizio, marcetta militare, Assad che incontra il dignitario Caio, altra marcetta militare”.
Fumava due pacchetti al giorno e guidava con la sigaretta in bocca attraverso i posti di blocco degli islamisti, che vietavano il fumo
Raed fumava due pacchetti di sigarette al giorno, guidava con la sigaretta in bocca attraverso i posti di blocco – anche quelli di Jabhat al Nusra, i qaidisti che frugavano i camion alla ricerca di stecche di sigarette che secondo loro erano vietatissime dalla legge islamica. Una delle tante novità che ai siriani come Raed suonano come un’imposizione bizzarra e artificiale di gente venuta da fuori. Da noi si dice ancora “fumare come un turco” e le colline della Turchia laggiù oltre il confine a tratti erano ancora visibili da quei posti di blocco sull’autostrada siriana che portava verso sud. Alla sera suonava l’oud, un’altra cosa che gli estremisti proibiscono perché sono convinti che l’unica musica autorizzata dal Corano sia quella che si basa sul suono delle voci umane. Un’altra bizzarria inattuale, e infatti basta accendere una radio araba per sentire ogni genere di strumenti.
“Mi conoscono tutti, non ho bisogno di armi”, rispondeva quando gli chiedevo se almeno avesse come chiunque un fucile o una pistola in macchina. All’epoca i gruppi estremisti non avevano ancora la forza per prendere di petto i rivoluzionari della prima ora. La regione di Idlib era un puzzle per solutori esperti, in alcune zone potevi andare e in altre no, certe piccole città rurali erano pericolose e andavano circumnavigate, per esempio Binnish che tutti sapevamo essere caduta in mano ai pazzi, altre invece erano relativamente sicure come Kafranbel, la cittadina di Raed, che si sforzava di diventare un modello politico post-rivoluzione per tutta la nazione. C’era un consiglio locale eletto dalla gente che prendeva le decisioni e i gruppi militari della zona dovevano adeguarsi – non il contrario, come succedeva in altri posti – e l’idea generale è che occorreva dimostrare che la Siria post Assad poteva essere un posto migliore di quella sotto Assad.
C’era l’idea di un potere civile quasi carismatico, “le cose si fanno così perché è più giusto che si facciano così”, che non ho mai visto in nessun altro luogo della Siria dove invece vige la regola naturale del più forte. Kafranbel, che in arabo vuol dire “la fattoria dei nobili” (vicino c’è Kafr Rumi, la fattoria dei romani, dove per “romani” s’intendono i crociati che passarono anche di qui per andare a Gerusalemme), s’è presa sulle spalle per molti anni il ruolo di esempio positivo di come potevano andare le cose. E Raed e i suoi erano centrali in questa missione. Avevano aperto un ufficio stampa locale che era diventato una specie di comune, c’era un viavai di attivisti da tutto il paese, donne non velate, cristiani non allineati con il governo, reporter di passaggio. Al venerdì mattina con un pennello e la vernice nera Raed scriveva in arabo e in inglese quegli striscioni che erano diventati il marchio di fabbrica di Kafranbel e che prendevano di mira un po’ tutti: gli assadisti, gli estremisti islamici, i paesi occidentali che avevano deciso di assumere una posizione indifferente. Da quattro anni aveva aperto anche una radio – Radio Fresh, che trasmetteva notizie e i messaggi non allineati. Al Qaida una volta era arrivata a distruggere tutta l’apparecchiatura, mandava messaggi continui di minaccia.
Aveva capito per tempo un concetto elementare: occorre aiutare i giornalisti internazionali. Regime e islamisti fanno il contrario
Gli estremisti non volevano che la radio trasmettesse intermezzi musicali con strumenti fra un intervento e l’altro, per la solita fobia, Raed aveva deciso di sostituire tutti gli intermezzi con versi di animali e rumori buffi. Barriti di elefanti, miagolii, nitriti, un orologio a cucù. Formalmente il divieto era rispettato, ma tutti i siriani in ascolto sapevano benissimo la ragione dei suoni e ridevano alle spalle di al Qaida. Per far andare avanti la radio Raed aveva ottenuto anche un finanziamento dal dipartimento di stato americano nell’ambito di un programma che sostiene le iniziative democratiche (non è durato molto). Oggi i propagandisti storcono il naso e dicono con disprezzo che Raed “era pagato dagli americani” e dimenticano che faceva andare avanti un centro media anti al Qaida in mezzo a un territorio infestato da al Qaida. Prima dell’attacco del 2014, e molte volte dopo, aveva ricevuto offerte per sistemarsi all’estero dove sarebbe stato più sicuro ma aveva sempre rifiutato perché non voleva abbandonare la lotta di pensiero e civile che aveva cominciato a Kafranbel. Tutti sanno che non c’è da aspettarsi l’avvento di un tempo migliore, le truppe del governo aspettano di riconquistare quell’area e anche se non arrivano ci sono gli estremisti. Il futuro di Raed era completamente fuori dal suo controllo e ignoto, ma non ha abbandonato il suo posto.
Raed era uno dei motivi per cui oggi quando sento qualcuno parlare di Siria secondo il solito schema ipersemplificato “O Assad oppure i terroristi” mi viene da pensare: “Ecco un altro molto disinformato”. Era il portavoce dei milioni di siriani che non volevano né l’una né l’altra cosa. Detestava gli estremisti, “se non fossimo in guerra non esisterebbero, sono queste condizioni anormali, la totale assenza di regole, i bombardamenti, i morti, il disordine in cui siamo precipitati a permettere loro di espandersi. La maggioranza dei siriani non li tollererebbe nemmeno per un giorno. E invece in questa situazione stiamo finendo fra l’incudine e il martello, l’ascesa degli estremisti è stata una catastrofe per noi e un regalo immenso per il regime”. E i cristiani?, chiedevo. “C’è questa idea che i cristiani stiano bene soltanto sotto gli Assad. Ma i cristiani vivono in Siria da duemila anni, molto prima che arrivassero gli Assad. Lui racconta di essere la sola speranza per i cristiani perché così si prende il ruolo di protettore delle minoranze, ma è una messinscena furba. Se un giorno gli dovesse convenire farà esattamente il contrario con i cristiani, come suo padre fece in Libano”.
Voleva che Kafranbel fosse un modello di governo laico e democratico, ed era diventato famoso per i suoi poster satirici
“Io non penso che Assad sia cattivo”, diceva Raed mentre pranzavamo attorno a un telo di plastica steso per terra. “E’ un somaro, sorretto al centro di un gioco molto più grande di lui da tutta la sua banda di generali e capi delle forze di sicurezza, che sanno che il rais è un simbolo di continuità e quindi deve restare in piedi, al suo posto”. Eravamo a casa di Hammoud al Juneid, il suo amico ucciso anch’egli nell’agguato di venerdì scorso. Un proiettile d’artiglieria aveva centrato un muro esterno della casa di Hammoud e le schegge avevano aperto fori dappertutto, nelle pareti, nelle porte di metallo e nelle finestre. Lui aveva portato via moglie e figlio al sicuro in Turchia e poi era tornato. Quando vedeva un fotografo spagnolo molto alto, quasi due metri, accettava di parlare soltanto se poteva salire su un muretto o su una balaustra per essere al suo livello o un po’ più alto. Era ancora più cordiale di Raed: ti bombardano casa e non perdi la voglia di scherzare.
Una mattina quasi all’ora di pranzo un aereo si mise a girare attorno alla città per qualche decina di minuti e poi decise di attaccare. Due bombe lanciate a caso sui tetti, così improvvise che non c’era stata la possibilità di capire dove sarebbero cadute, il rombo dell’aereo s’era fatto vicinissimo di colpo, “tayyara tayyara!”, l’aereo l’aereo, non restava che infilarsi sotto le scale con le braccia sopra la testa e aspettare che le bombe esplodessero qualche secondo più tardi e sperabilmente lontano. Il giorno dopo mentre scrivevo con il laptop sulle gambe e la schiena appoggiata a un muro mi addormentai. Fui svegliato da un frastuono fortissimo, “tayyara tayyara!”, ci bombardano di nuovo! scattai in piedi per tuffarmi nel sottoscala ma tutti nella stanza ridevano. Si erano accorti che mi ero assopito, avevano sollevato una cassa piena di pentole, l’avevano lasciata cadere per terra e poi avevano gridato: l’aereo l’aereo!
Uno dei compiti che il centro media di Kafranbel svolge – svolgeva? – molto bene era documentare i crimini di guerra. Ogni volta che c’era un bombardamento contro i civili Raed e i suoi uscivano con le telecamere in mano e andavano a girare filmati e a fare la conta dei morti. Uno dei video più impressionanti fu quello girato in casa, per così dire, il bombardamento aereo di Kafranbel durante il giorno di mercato che fece trentanove morti. Fiamme dappertutto, banchi rovesciati, feriti che si rialzano a stento, morti. Il regime usava per la città e per i luoghi attorno la tattica del bombardamento casuale con l’artiglieria. Per non sprecare munizioni e creare comunque un’atmosfera di panico, una volta alla settimana sparava un paio di cannonate. L’effetto era quello di una gigantesca roulette russa, a chi toccava toccava. Un’anziana fu colpita da una scheggia mentre mangiava vicino alla finestra, “l’abbiamo trovata senza metà della testa davanti al piatto di minestra che non si era mosso di un millimetro”. Questo ruolo di archivisti degli orrori della guerra civile fu anche la ragione del mio primo incontro con Raed, cercavo contatti che offrissero un minimo di sicurezza in quella zona, gli dissi che qualche mese prima avevo scritto un reportage su una bambina, Fatima, uccisa in un bombardamento la cui foto era circolata molto, la propaganda di regime diceva che quella nella foto era una bambola, c’erano le prove del contrario. “Lo so – mi disse – l’ho scattata io quella foto. Ho fatto anche il video”.
Sono i generali che prendono le decisioni strategiche d’accordo con i grandi alleati esterni. Il compito di Bashar è stare a palazzo, far vedere che non è cambiato nulla, è tutto come prima, la rivoluzione non si è compiuta”. E se i gruppi ribelli fossero stati uniti, diceva Raed scuotendo la faccia, avrebbero vinto subito il conflitto nei primi mesi. Erano in netta maggioranza, gli estremisti non erano ancora rilevanti, gli alleati esterni non avevano ancora puntato su Assad al potere, se i gruppi avessero marciato su Damasco l’avrebbero presa. Invece tutti restano aggrappati al loro territorio, a controllare cosa succede in aree troppo lontane da Damasco per contare, perché vogliono fare i loro piccoli interessi”.
Raed Fares era la ragione per cui lo slogan “O Assad oppure i terroristi” non tiene: i siriani non vogliono né l’uno né gli altri“
Raed aveva capito per tempo un concetto elementare: che occorreva aiutare i giornalisti internazionali a fare il loro lavoro e a girare nelle zone fuori dal controllo governativo. Così avrebbero avuto una conoscenza di prima mano di quello che stava accadendo, avrebbero parlato con i siriani per ascoltare direttamente da loro cosa pensano, avrebbero visto con i loro occhi la violenza senza senso contro i civili. I gruppi terroristici e il governo siriano – che da sei anni detiene un freelance americano, Austin Tice – invece pensano esattamente l’opposto, in una curiosa coincidenza di pensiero: meno giornalisti ci sono in giro e meglio è, perché così facciamo quello che vogliamo noi. Fazioni come Jabhat al Nusra (e le sue evoluzioni successive, sotto nomi diversi) e lo Stato islamico rapiscono i giornalisti, chiedono riscatti e in molti casi li ammazzano. E’ un orrore morale e politico che ha distrutto la rivoluzione siriana: giornalisti che erano entrati per essere testimoni di una delle campagne militari di repressione più devastanti della storia recente sono stati traditi, venduti e macellati come bestiame senza la protezione che meritavano.
Il regime siriano invece accetta soltanto giornalisti stranieri che non abbiano mai lavorato nelle zone fuori dal controllo governativo, li affida a delle “guide” che sorvegliano dove vanno e con chi parlano, controlla quello che scrivono e che dicono quando sono fuori dal paese. Se criticano il regime finiscono sulla lista nera assieme ai giornalisti che sono stati nei pezzi di Siria in mano ai ribelli e quindi non possono più tornare. Considerato che, come si è detto, nel territorio fuori dal controllo del paese è quasi impossibile lavorare, in molti si adeguano.