Un apologo dal Terzo mondo per non finire come il Terzo mondo
Dalla rivolta contro il sistema metrico decimale ai nostri “No Tutto” populisti. Ma l’esperimento sovranista è finito
Racconta Mario Vargas Llosa che, alla fine del XIX secolo, nei territori degli stati di Sergipe e Bahia situati nella parte nordorientale del Brasile, ci fu una sollevazione contadina, guidata da un predicatore carismatico, l’apostolo Ibiapina, contro il sistema metrico decimale. I ribelli assalivano i negozi e i magazzini e sfasciavano i nuovi pesi e le nuove misure – le bilance, i chili e i metri – adottati dalla monarchia con il proposito di omologare il sistema brasiliano a quello prevalente in occidente e facilitare in questo modo le transazioni commerciali del paese con il resto del mondo. Questo intento modernizzatore sembrò sacrilego a padre Ibiapina e molti dei suoi seguaci morirono e uccisero cercando di impedirlo.
La pittoresca sollevazione fa parte di una robusta tradizione che ha accompagnato la storia dell’America latina: il rigetto del reale e del possibile in nome dell’utopia. Ma il rifiuto dello sviluppo industriale e la difesa del pauperismo hanno profonde radici anche nella cultura europea. Da questo “rifiuto della modernità” sorge, infatti, come ha spiegato Giuseppe Bedeschi, il progetto rousseauiano di una società “chiusa”, frugale e virtuosa, in cui la politica copre tutti gli spazi della vita individuale. E, a ben guardare, i pentastellati, gli organizzatori delle manifestazioni No Tav e No Tap, i No Vax e i nostalgici dell’austerity degli anni Settanta, non dicono cose diverse dal profeta di Ginevra. Anch’essi guardano con rimpianto alle “società chiuse” dell’antichità e del Terzo e Quarto mondo, dove il sottosviluppo e l’economia di sussistenza sono da sempre il modo migliore per mantenere la gente nella condizione di sudditi, senza i privilegi e le garanzie della cittadinanza politica. Non è un caso che Grillo abbia detto con involontaria comicità che, per governare le città, il modello grillino è quello di Lagos, in Nigeria.
Ma in un paese del Terzo mondo, a ogni elezione tutto sembra essere in discussione e ricominciare ogni volta daccapo, dalla natura stessa delle istituzioni alle politiche economiche e alle relazioni tra il potere e la società. A lungo alle nostre latitudini le elezioni sono sembrate noiose (la Germania era un caso emblematico), per la mancanza di colpi di scena e di grandi disaccordi fra i principali candidati in corsa; e i partiti sono sembrati a lungo incapaci di trovare argomenti in grado davvero di distinguerli. L’ascesa del populismo ha complicato un po’ le cose. Ma un paese del Terzo mondo nelle urne si gioca ancora, ogni volta, il modello politico, l’organizzazione sociale e, spesso, la semplice sopravvivenza. Tutto può cambiare radicalmente in relazione al risultato elettorale e, di conseguenza, il paese può retrocedere di colpo, perdendo dalla sera alla mattina tutto quel che aveva guadagnato nel corso degli anni. È questa caratteristica che ha fatto capolino nelle ultime elezioni in Italia.
Mario Vargas Llosa spiegava il rigetto del reale e del possibile in nome dell’utopia. Ma il “rifiuto della modernità” in favore della società “chiusa” è nato in Europa: con Rousseau (ma guarda un po’…). È la classe media delusa votare populista. Ma, da Torino a Roma, ci sono segnali di un risveglio. Vanno incoraggiati
Il paragone con il Terzo mondo è, ovviamente, irritante e contrasta profondamente con la convinzione generale che il nostro paese sia una delle più grandi nazioni del mondo e di sicuro la più nobile. Ma a Torino e a Roma (dove comunque, dopo la manifestazione in Campidoglio contro il degrado, più di 300 mila persone sono uscite di casa, di domenica, per dire sì alla liberalizzazione del trasporto pubblico della capitale) si sono accorti dello smottamento.
È un segno, un’avvisaglia, che ci dice che se non aggiustiamo la rotta – contrariamente alla nostra storia e a quello che sembrava essere il nostro destino – potremmo diventare davvero una nazione del Terzo mondo. Un posto dove ci sono solo due classi: i ricchi e tutti gli altri. Come in Messico o in Brasile, dove i ricchi vivono al riparo di inferriate e cancelli rinforzati, sorvegliati da guardie che imbracciano un mitra per proteggere i loro figli dai rapimenti. Un luogo che non è riuscito a stare al passo con i tempi; che non è stato sconfitto da un nemico esterno, ma dalla cupidigia e dalla meschinità delle nostre élite economiche e intellettuali e dalla inettitudine dei nostri leader politici. Proprio in questo senso, qualche anno fa, Arianna Huffington aveva parlato di “Third World America”.
La gente è arrabbiata perché la vita è più dura. Ed è la classe media delusa (non i poveri) a formare il grosso dell’elettorato populista, perché ritiene di essere stata scavalcata ingiustamente a vantaggio di altri gruppi ed ha paura del futuro. Al cuore del problema c’è la voglia di contare. Gli elettori ritengono di non avere strumenti per incidere sulle decisioni politiche (da qui la cotta per la democrazia diretta). Per questo, bisogna che sia la gente a prendere coscienza della posta in gioco. Come sta accadendo a Torino con la Tav. E’ andata così, del resto, anche nel 1980 con la marcia dei quarantamila e nel 1991 con il referendum elettorale sulla preferenza unica (“Come mai, prima, non mi accorgevo di questo cielo? E come sono felice d’averlo riconosciuto, finalmente!”, dice il principe Andrej ad Austerlitz). Si tratta di un processo che il Pd – che, come dice Minniti, fin qui si è guardato “schizofrenicamente” l’ombelico – dovrebbe incoraggiare, attrezzandosi per rappresentare quanti alla modernità non vogliono rinunciare e non si rassegnano allo scivolamento verso una struttura sociale e un’economia da paese del Terzo mondo.
Più di sessant’anni fa, l’America si destò dall’incubo del maccartismo e disse “basta”. Era il 9 giugno 1954. L’ossessione anticomunista del senatore repubblicano Joe McCarthy era riuscita a far trangugiare al paese un intruglio tossico di paura, sfiducia e paranoia. Ma nel bel mezzo dell’indagine conoscitiva (trasmessa in televisione) per capire se i comunisti si annidassero segretamente nell’esercito, un avvocato dell’esercito di nome Joseph Welch non ne potè più. “Ha già fatto abbastanza”, rispose, dopo che McCarthy lasciò intendere che uno dei colleghi di Welch avesse simpatie comuniste. “Non ha un minimo di decenza, signore? Alfine, non le resta un minimo di decenza?”. Le parole di Welch misero fine alla carriera del senatore repubblicano e l’immensa popolarità di McCarthy evaporò da un giorno all’altro. L’esperimento sovranista è finito e, tra non molto, rivolti a Di Maio e a Salvini, saranno in parecchi a sbottare: “Have you no sense of decency?”.