L'accusa di frode contro Huawei ha già fatto partire l'effetto domino
La direttrice finanziaria dell’azienda cinese è apparsa davanti al tribunale di Vancouver. Brutte notizie da Giappone e Uk
Roma. Meng Wanzhou, direttrice finanziaria di Huawei e figlia del fondatore dell’azienda, è apparsa ieri sera davanti al tribunale di Vancouver, in Canada, dove è stata arrestata una settimana fa su richiesta degli Stati Uniti, che ne vogliono l’estradizione. L’udienza serviva a decidere la cauzione per la supermanager cinese, ma la notizia principale è stata la conferma delle indiscrezioni sulle accuse, che finora erano rimaste riservate: Meng è accusata di frode bancaria per aver usato il sistema finanziario nel tentativo di evadere le sanzioni americane contro l’Iran e vendere tecnologia proibita, mediante Skycom, un’azienda di Hong Kong che formalmente era indipendente ma che in realtà, dice l’accusa, era controllata da Huawei.
Se Meng Wanzhou dovesse decidere di combattere nei tribunali canadesi contro l’estradizione in America il suo caso potrebbe richiedere anni per essere deciso, come scrivono alcuni esperti di sistema giudiziario. Se invece dovesse assecondare le richieste americane, nella speranza che il suo caso, una volta trasferito, passi dalle mani della giustizia a quelle della diplomazia, allora Meng potrebbe varcare il confine nel giro di qualche settimana. Si tratterà di un procedimento lungo, e potrebbe trascorrere tempo prima che Meng possa tornare in Cina.
Sono bastate 48 ore, tuttavia, perché l’effetto domino dell’arresto crollasse su Huawei. Per coincidenza o per tempismo, ieri fonti governative del Giappone hanno confidato ai media che Tokyo si prepara a bandire le compagnie cinesi dalla costruzione delle infrastrutture per le telecomunicazioni e per le reti 5G. Ovviamente, il bando riguarda soprattutto Huawei, che aveva instaurato partnership notevoli con molte aziende giapponesi. Il portavoce del governo di Tokyo non ha voluto commentare le indiscrezioni, ma ha detto che sul tema della cybersicurezza il Giappone collabora strettamente con gli Stati Uniti, come a dire: abbiamo deciso da che parte stare.
Contestualmente – e anche in questo caso coincidenza e tempismo si intersecano – il governo britannico si è presentato da Huawei con tutta una serie di richieste onerose da ottemperare se l’azienda vuole avere ancora qualche possibilità di rimanere attiva nel mercato del Regno Unito. Sono richieste tecniche, per cambiare alcune procedure di sviluppo degli applicativi per le telecomunicazioni e per aumentare sicurezza e trasparenza: il Financial Times, che ha pubblicato per primo la notizia, non collega direttamente l’arresto di Meng al fatto che Huawei abbia ceduto alle richieste di Londra, ma scrive che l’evento “ha aumentato la pressione internazionale verso una linea più dura” nei confronti dell’azienda cinese.
Questa “linea dura” era nell’aria già da mesi, da quando gli Stati Uniti hanno intensificato la loro guerra contro le infrastrutture 5G di produzione cinese, e l’arresto non può che aumentare le barriere di sospetto, sfiducia e reputazione ambigua che la compagnia per anni ha tentato in tutti i modi di eliminare. In occidente, fino a cinque anni fa, Huawei era un produttore di smartphone scadenti ma economici, che rispettavano il cliché cinese. Ci sono voluti anni, e investimenti ingenti, ma Huawei negli ultimi tempi era riuscita a cambiare la percezione del mondo e aveva cominciato a giocare ad armi pari con giganti come Samsung e Apple. Un quarto delle entrate dell’azienda, l’anno scorso, è arrivato da mercati non asiatici. Questo aveva fatto di Huawei la ragione di un enorme orgoglio nazionale. La guerra commerciale potrebbe distruggere il suo successo.
Eugenio Cau