I mediatori di Francia sono inudibili, e la "logica della rotatoria" persiste
Le proteste sono insaziabili, le parole di Macron non fermano i gilet gialli che preparano il V atto
Milano. Theresa May si arrende, Emmanuel Macron si arrende, i titoli dei giornali infilano la resa un po’ ovunque, chi la descrive con toni trionfali – vedete questo partito europeo com’è debole? – e chi con toni sommessi, ma sempre resa è: se alzi la voce, poi ottieni qualcosa, alziamola ancora. Ci sarebbe da discutere su queste analisi schizofreniche: i trionfalisti un giorno accusano il partito europeo di ogni abuso di potere dominante, ci vogliono rovinare, e il giorno dopo esultano per la debolezza europea, vi pieghiamo quando vogliamo, e nessuno nota la contraddizione. Ma oggi è un giorno nuovo, c’è poca memoria nella stagione dell’istante e del discontento e comunque vada nessuno si sente pienamente soddisfatto. La premier britannica rimanda il voto parlamentare sulla Brexit cercando un aiuto europeo dell’ultimo minuto, che in parte arriva e in parte è inutile: è a Londra il problema, non a Bruxelles, o come dicono gli antidivorzisti “il problema della Brexit è la Brexit stessa”. Il caos londinese, che la May ha amplificato, mostra un’altra bugia, l’ennesima, sull’uscita dall’Ue: siete incontentabili. Vale lo stesso per il presidente francese: se fa delle concessioni sbaglia, se non le fa sbaglia, se chiede scusa si umilia, se non chiede scusa è un arrogantello senza futuro. Siete incontentabili. La protesta anti europea è incontentabile, non le basta assestare qualche buon colpo, come in Francia, e imparare a dotarsi di un po’ di consapevolezza e realismo, come servirebbe nel Regno Unito, vuole andare avanti, vuole andare oltre. Così i gilet gialli annunciano il “V atto” della loro protesta, appuntamento a sabato, e chi dice: fermiamoci, siamo stati in parte ascoltati, rischia di finire in disparte.
Secondo alcune rilevazioni fatte martedì dai media francesi, cresce nel paese il desiderio di un po’ di calma, anche se la maggioranza non è convinta dalle proposte di Macron, c’è chi dice che arrivano troppo in ritardo, chi dice che sono troppo poche, chi troppo costose. Uno dei primi volti delle manifestazioni dei gilet gialli, Jacline Mouraud, suggerisce che è arrivato il momento di “uscire intelligentemente” dalla protesta, non si può restare “sulla rotatoria” tutta la vita, “la porta è aperta, entriamoci”, ma il suo pragmatismo resta sommerso dagli appelli degli incontentabili, che vogliono tornare in piazza, restarci fino a quando “il pupazzo dell’ordine liberale”, Macron, non sarà annientato. All’Assemblea nazionale, dove martedì si è presentato il premier Edouard Philippe per riferire sul discorso del presidente di lunedì sera (seguito da più di 23 milioni di francesi, più di quelli della finale dei Mondiali, e forse questa è una pessima notizia), si accavallano reazioni di ogni tipo, ma il sottotesto è lo stesso: non facciamoci sfuggire questa occasione, finché la piazza è piena il governo resta in crisi e noi possiamo brillare di luce riflessa. E pazienza se i grandi magazzini dicono che c’è stato un calo consistente delle vendite, pazienza se la Banca centrale rivede al ribasso le stime del trimestre, pazienza se ci saranno meno turisti per la stagione natalizia, perché Parigi appare meno affascinante del solito, pazienza se le ripercussioni economiche sono grandi, e i danni da sistemare aumentano: l’occasione non va sprecata. Più i mediatori sottolineano che le mani tese vanno prese, più la protesta si galvanizza, il sorrisetto di Marine Le Pen fa da sfondo a ogni analisi. Alain Juppé, che quando era primo ministro negli anni Novanta aveva subìto l’assalto della piazza, ha consigliato di aprire il dialogo, di tenerlo in piedi, se il presidente-che-non-ascolta-la-rabbia decide di fare il conciliante, è bene non farsi scappare questa, di occasione. Ma l’appello di Juppé è un appello da establishment, gli “insoumis” di Jean-Luc Mélenchon, i socialisti e i comunisti hanno presentato in Parlamento una mozione di censura contro il governo e la sua gestione della protesta dei gilet e – ironia massima – denunciando i costi eccessivi di quel che ha proposto Macron per riportare la calma: Mélenchon, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è per continuare la rivoluzione.
Il quinto atto della protesta che potrebbe tenersi sabato è la sintesi dell’incontentabilità, che si autoalimenta. In queste settimane i gilet gialli sono stati analizzati, studiati, guardati da vicino, i tanti portavoce sono stati invitati in tv per mostrarsi e spiegarsi, ma è chiaro da qualche tempo che il gilet giallo è contagioso e non ha esclusivamente a che fare con il potere d’acquisto garantito o no in Francia né con il salario minimo né tantomeno con le accise sulla benzina che sono state congelate già la settimana scorsa. Non è necessario sbandierare il solito, sopravvalutatissimo Steve Bannon per dimostrare che in gioco non c’è soltanto il futuro di Emmanuel Macron ma quello di una certa visione di mondo, ordinata e riformista, che ancora una volta rischia di trovarsi impreparata di fronte alla sfida. L’alibi della protesta inattesa tiene sempre meno, anzi farsi sorprendere è forse l’errore più grande che i leader europeisti possono commettere in questo momento. Se c’è ritardo non è nella “briciole” sparpagliate da Macron (così le chiamano molti gilet gialli) ma nella capacità di trovare una risposta convincente alle proteste, allo scontro ideologico, che non sembri un passo indietro o una resa. L’affanno è tutto qui, e mischiato all’insaziabilità dei gilet e dei loro sostenitori diventa un crepacuore.