La mano europea a Theresa May
I 27 vogliono aiutare la premier e l’accordo Brexit e hanno trovato un espediente. Ma i guai di Londra restano
Bruxelles. L’Unione europea è pronta a dare un’ultima mano a Theresa May per consentirle di mettersi alle spalle la crisi Brexit, ma la soluzione prospettata dai leader dei 27 difficilmente basterà al primo ministro britannico per convincere la Camera dei Comuni ad approvare il suo piano. Il testo dell’accordo di ritiro e della dichiarazione politica non sarà rinegoziato. “Non accadrà: tutti devono sapere che l’accordo di ritiro non sarà riaperto”, ha detto il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, davanti all’Europarlamento prima di incontrare la May. Ma c’è “sufficiente margine per ulteriori chiarimenti e ulteriori interpretazioni senza riaprire l’accordo di ritiro”, ha spiegato Juncker. Il compromesso dell’Ue esasperata è un espediente già utilizzato in passato: una “dichiarazione” per chiarire e interpretare quel che già è chiaro. Nello specifico l’articolo 19 della dichiarazione politica sulle relazioni future che è stata solennemente adottata nel Consiglio europeo del 25 novembre: “Le parti ricordano la loro determinazione a sostituire la soluzione del backstop sull’Irlanda del nord da un successivo accordo che istituisca meccanismi alternativi per assicurare l’assenza di una frontiera fisica sull’isola di Irlanda su base permanente”. Tradotto: dal punto di vista politico il Regno Unito non sarà intrappolato per sempre nel backstop – un’unione doganale con l’Ue (che significa l’impossibilità di firmare accordi di libero scambio fissando autonomamente le tariffe) e l’allineamento normativo in una serie di settori chiave (che significa subire le regole di Bruxelles senza poter dire nulla) – anche se dal punto di vista legale rischia di rimanerci a tempo indeterminato.
La soluzione offerta alla May era già stata sperimentata con l’Olanda nel 2016 per superare uno stallo sull’accordo di associazione tra l’Ue e l’Ucraina. Alcuni mesi prima, in un referendum, gli olandesi avevano detto “no” al patto firmato nel 2014 con Kiev sull’onda della rivoluzione del Maidan e dell’aggressione della Russia, bloccando la ratifica da parte del Parlamento dell’Aia e prendendo in ostaggio le relazioni tra l’Ue e l’Ucraina.
Ricorrendo alla creatività politico-giuridica che permette all’Ue di funzionare anche nelle crisi peggiori, i 28 fecero ricorso a un trucchetto: una dichiarazione interpretativa (via decisione vincolante) per chiarire agli olandesi che l’accordo di associazione non offriva all’Ucraina la prospettiva di adesione, né garanzie di sicurezza collettiva o aiuto militare in caso di aggressione, né tanto meno libero accesso agli ucraini al mercato del lavoro europeo. Nel caso dell’Olanda l’interpretazione di quanto era già chiaro nel testo dell’accordo di associazione bastò a convincere il Senato dell’Aia a ratificarlo. Nel caso del Regno Unito, la situazione è giuridicamente più complessa e politicamente troppo instabile. Il backstop è parte dell’accodo di ritiro che ha valore vincolante, mentre le rassicurazioni sulla volontà di non usarlo sono contenute nella dichiarazione politica sulle relazioni future che non ha valore vincolante. Nel caos dei Comuni, gli europei dubitano che una dichiarazione interpretativa basti alla May per recuperare i cento voti di cui ha bisogno per far approvare il suo accordo.
Prima di andare a incontrare Juncker, May martedì ha fatto un mini-tour delle capitali che considera alleate, perché hanno più da rimetterci da un no deal. Prima una colazione con il premier olandese Mark Rutte, poi un pranzo con la cancelliera tedesca Angela Merkel, infine un tè con il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk: i leader europei sono consapevoli di non poter fare granché per tirare fuori la May dai guai in cui si è infilata nella speranza di tenersi buoni i brexiteers del Partito conservatore. “Il problema sta tutto a Londra”, spiega al Foglio una fonte europea. “Abbiamo fatto molto per aiutare il Regno Unito. Questo accordo di ritiro è l’unico possibile. Abbiamo fatto molte concessioni”, ha detto il ministro francese per gli Affari europei, Nathalie Loiseau. Il backstop per l’Irlanda – agli occhi degli europei – serve a preservare la pace da una situazione esplosiva e anche l’unità del Regno Unito. Martedì a Dublino la presidente del Sinn Fein, Mary Lou McDonald, ha chiesto al premier Leo Varadkar di indire un referendum per decidere se l’Irlanda del nord in futuro sarà parte della Repubblica d’Irlanda o del Regno Unito, come previsto dagli accordi del Venerdì Santo (il Taoiseach ha rifiutato). “E’ chiaro che l’Ue a 27 vuole aiutare. La domanda è come”, ha detto Tusk.
La Merkel ha fatto sapere di essere ottimista sulla possibilità di trovare una soluzione. Ma la situazione politica a Londra è sempre più scoraggiante per l’Ue. Secondo Downing Street il voto ai Comuni sull’accordo potrebbe slittare fino a poco prima del 21 gennaio 2019, data ultima entro la quale – secondo la legge – il governo deve constatare il mancato accordo. “Siamo molto preoccupati”, ha ammesso la francese Loiseau: l’Assemblea nazionale ha appena votato una legge per dare al governo il potere di adottare una serie di decreti per proteggersi da una Brexit disordinata. Il Consiglio europeo di domani rischia di trasformarsi in un vertice di crisi sullo scenario del “no deal”. “Il tempo si sta esaurendo: discuteremo anche dei preparativi” per un’uscita senza accordo, ha detto Tusk. Non prima però di offrire alla May un’ultima via d’uscita per il bene del suo paese: fermare gli orologi della Brexit per qualche mese. “Siamo pronti ad accettare la richiesta del Regno Unito di prolungare i negoziati oltre il 29 marzo 2019”, spiega al Foglio un’altra fonte europea. “Ma prima la May dovrebbe convincersi a salvare il Regno Unito invece della sua premiership e del suo partito”.