La piazza contro Orbán ha due anime che sono sempre più vicine
“Traditore” e “dittatore”, urlano i manifestanti. Un esponente di Jobbik ci dice di tenere d’occhio le automobili
Roma. C’è una foto che racconta la piazza di Budapest ed è l’immagine delle ombre delle braccia sollevate – e anche qualche dito medio alzato – dei manifestanti, proiettate su un murales che raffigura Orbán dipinto sulla parete della sede dell’emittente ungherese MTV HQ. Un Viktor Orbán sorridente contro il quale, nella notte tra lunedì e martedì, i manifestanti hanno gridato tutta la loro insoddisfazione. A Budapest non c’è stanchezza, c’è frustrazione e c’è soprattutto tanta delusione. Quando lo scorso mercoledì sera il Parlamento ha approvato due leggi, una che riforma la giustizia sottomettendola all’esecutivo e l’altra che dà ai datori di lavoro il potere di imporre fino a quattrocento ore di straordinari all’anno, gli ungheresi sono scesi in piazza. E lì, per quasi una settimana, sono rimasti. All’inizio erano tremila, davanti al Parlamento. Qualcuno urlava “Orbán traditore”, qualcuno “Orbán dittatore”. Poi sono diventati cinquemila, quindicimila, centomila, immersi tra le bandiere ungheresi, europee e dei partiti di opposizione. Domenica i manifestanti sono andati al quartier generale dei media , ma le televisioni, controllate da amici del premier, non intervistano né oppositori né manifestanti. Nel mondo mediatico orbanizzato le proteste quasi non esistono, se non nella capitale.
#Hungary has been rocked by protests for a week already. However, the picture that clearly summarizes the discontent of the people with the Government has been projected on the wall of MTV HQ this evening. pic: Zoli Adrián #Budapest #HungaryProtests18 pic.twitter.com/kurIMmAlCU
— Balazs Csekö (@balazscseko) 17 dicembre 2018
La forza della piazza di Budapest sta nelle contraddizioni, nell’insieme di resistenze, di ansie, che hanno convinto tutti gli ungheresi a manifestare. Non ci sono soltanto gli intellettuali, i professori o gli studenti che già avevano protestato contro l’espulsione della Central European University, l’Università fondata e finanziata da George Soros che dal 1° gennaio dovrà lasciare Budapest per volere del governo.
Questa piazza ha dentro tutta l’Ungheria, che in otto anni ha conosciuto una rapida crescita economica e si è trasformata in un esperimento di governo, nel laboratorio di una “democrazia illiberale” che di democrazia ha sempre meno. Oggi, gli otto anni di esperimenti sono tutti in piazza. Quando ad aprile Orbán ha ottenuto il suo quarto mandato, il terzo consecutivo con quasi il 50 per cento dei voti, l’affluenza è stata bassa, soprattutto in città, ma nelle periferie e nelle campagne, Fidesz, il partito di governo, si è confermato molto forte dopo anni di politiche di riduzione dei costi, di innalzamento di pensioni e salari minimi, di assegni familiari. Secondo è arrivato Jobbik, un partito di estrema destra che ha tentato un’operazione cosmetica, si è proposto come forza moderata, e ha ottenuto il venti per cento. La difficoltà per Jobbik era trovare una dialettica da contrapporre a Fidesz: è un partito gemello, finanziato da un ex amico di Orbán, compagno di scuole e di armi, Lajos Simicska. La riforma del lavoro, ribattezzata “legge schiavitù”, è stata un ottimo pretesto, un errore impopolare da parte del primo ministro ungherese che nessuno si aspettava e che gli oppositori imputano alla volontà del governo di attirare le grandi case automobilistiche in Ungheria. “Se marchi internazionali come la Bmw si sono trasferiti lo hanno fatto perché il governo è riuscito ad attirarli. Non c’è un accordo tra Fidesz e le multinazionali, abbiamo parlato con Berlino e ha smentito, ma Fidesz crede che così, sfruttando i lavoratori, l’Ungheria sarà più appetibile”, dice al Foglio László Lukács di Jobbik.
Multiforme e composita, la piazza di Budapest indica che qualcosa si è rotto nell’idillio tra il premier e i suoi elettori. Che l’Ungheria, che dalla fine del regime comunista non ha avuto una grande tradizione di proteste e cortei, diversamente dalla Polonia o dalla Repubblica ceca, chiama il premier “traditore”. Poi c’è l’Ungheria che gli grida “dittatore” ed è la parte del paese che vuole togliere l’aggettivo illiberale dalla propria democrazia. Le due anime sono insieme, ostinate. Già nel 2014 Orbán aveva dovuto fare un passo indietro dopo le proteste ed era stato costretto a eliminare la web tax. Questa piazza è ancora più potente: si incontrano ideologia e denaro, stato di diritto e necessità, ideali e diritti.