Lo spazio tra l'Europa umana e quella politica è dei giovani. Parla Mounk
Due parole sull'alternativa al populismo col politologo di Harvard, dopo l’uccisione di Megalizzi
Londra. “Tu ragazzo dell’Europa, tu non pianti mai bandiera”, cantava Gianna Nannini nel 1982 e sembra di vederlo ancora, questo suo amante con “il cuore fuoristrada” che viveva “in mezzo a una sfida per le vie di Colonia”. Vai avanti di trentasei anni e cambia città, Strasburgo, e la sfida ne vede due, di europei: la vittima piena di energie e ideali e il carnefice con la mente già spenta da radicalizzazione e crimine, tutti e due nati ben dopo l’album di Gianna. Antonio Megalizzi, ventottenne reporter della radio Europhonica, muore dopo giorni di agonia per un proiettile impossibile da estrarre, e nell’Italia contemporanea non c’è modo di piangere questo giovane europeista senza che la cosa venga considerata un bieco tentativo di imbellettare la realtà di un’Europa ormai marcia e indifendibile. Accuse che strappano al politologo Yascha Mounk un sorriso amaro: “Questa gente potrebbe non strumentalizzare gli attentati terroristici per parlare di immigrazione, se ci tiene così tanto alla neutralità e al rispetto per i morti”.
Autore del celebrato “Popolo vs. Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura”, Mounk, nato proprio nel 1982, dell’Unione europea vede tutti i difetti, ma invita a distinguere “tra lo spazio umano e culturale dell’Europa e lo spazio politico”. Il primo è in piena espansione, perché i giovani viaggiano, imparano lingue, importano idee e vivono i confini con fastidio, mentre il secondo soffre del “contrasto tra il sogno europeo e la realtà di una Ue molto complicata, con un deficit democratico” dovuto, tra le altre cose, al fatto che al Parlamento continua a mancare “quella legittimazione” che gli verrebbe dal fatto di essere eletto per ragioni europee, e non di politica nazionale.
Inoltre il meccanismo decisionale, per Mounk, “è così complesso che non permette di risolvere la sua stessa complessità”, mentre la classe dirigente “per sopravvivere a questa fase di rabbia continua a fare quello che ha sempre fatto senza parlare di futuro, di lavoro, di crescita”. Inoltre c’è un altro problema strutturale, “i politici quando le cose vanno bene si prendono il merito, mentre quando vanno male danno la colpa all’Europa” e non basta cercare di spiegarlo a una popolazione che “al momento è pronta a buttare via le istituzioni nazionali, si figuri quelle sovranazionali”.
Il politologo di Harvard, nato in Germania da genitori polacchi, è una mente troppo agile e reattiva per pensare che il sovranismo sia un male da accettare passivamente: bisogna uscire di casa e protestare, bisogna impedire che qualcuno si accaparri l’esclusiva di rappresentare la gente; fare politica dal basso, anche con politici un po’ imperfetti ma con qualcosa di positivo; parlare con i giovanissimi per evitare che si finisca come negli Stati Uniti, dove solo il 19 per cento dei millennial pensa che “una presa di poteri militare non sia legittima in democrazia”. Sull’Europa, gigante imperfetto, non bisogna farsi intimidire dalla “polarizzazione politica molto concentrata” di questi tempi: le istituzioni politiche “non hanno continuato a dare gli stessi progressi economici che nel dopoguerra”, ma le istituzioni europee “non sono qualcosa che si possa lasciare andare via” anche se non le si ama per niente e si pensa che tra Consiglio europeo e Consiglio d’Europa qualcuno debba decidersi a cambiare nome, se è vero che sono cose diverse.
Ma come smettere di viaggiare, di volersi migliorare, di pensare come la ragazza dell’Europa Jo Cox, altro volto appassionato che si è visto per Bruxelles e Strasburgo prima di una tragica fine, che il progresso sia lì e non in quelle chiusure che tanto non funzionano mai? “I populisti sono molto forti quando criticano e non governano. Se vengono eletti prima o poi devono mettere a tacere la stampa, prendere misure illiberali, ma arriva il momento in cui i giovani si ribellano, o perché rivogliono la libertà di parola, come sta avvenendo in questi giorni straordinari a Budapest, o perché rivogliono indietro la libertà in cui sono nati, come i giovani attivisti britannici anti Brexit”, spiega Mounk. L’Europa che non sa aiutarsi da sola potrebbe finire salvata dai ragazzini, spaventati di perdere qualcosa che forse non sanno neppure di avere.
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