I disastri della fuga di Trump dalla Siria
Generali e diplomatici smentiti, credibilità azzerata e curdi abbandonati
New York. Giovedì sui canali Telegram dello Stato islamico si commentava la decisione improvvisa del presidente americano, Donald Trump, di ritirare tutti i soldati americani dalla Siria e di interrompere anche le missioni aeree. La notizia è vista dai terroristi come una chance inaspettata di rovesciare l’andamento della guerra contro le milizie curde che negli ultimi tre anni hanno portato lo Stato islamico quasi all’estinzione: ora i curdi resteranno senza l’appoggio a terra degli americani (forze speciali, artiglieria e intelligence) e soprattutto senza i bombardamenti di precisione che possono prendere di mira e colpire il tetto di un singolo edificio e sono così preziosi durante i combattimenti. Lo Stato islamico in questi anni non è riuscito a mantenere la presa su tutto l’enorme territorio che era caduto sotto il suo controllo, ma è specializzato nel risorgere dalle sue ceneri. L’ha già fatto una volta dieci anni fa, in Iraq, quando le sue attività si erano ridotte al minimo, i suoi uomini erano arrestati a centinaia e i capi erano uccisi uno dopo l’altro. Ha aspettato che le condizioni fossero migliori ed è tornato. Ci sono centinaia di cellule clandestine dello Stato islamico in Siria pronte a uccidere, sabotare e piazzare bombe per terrorizzare la popolazione locale, indebolire le forze di sicurezza e tentare di tornare forti come prima – quando organizzavano attentati in Europa. Tanto più che questa volta il gruppo non risorge dalle sue ceneri, ma riparte da una posizione ancora solida. Mentre il presidente Trump dice “abbiamo vinto”, ecco i dati ufficiali dei bombardamenti americani contro lo Stato islamico in Siria: sono stati 208 soltanto nella settimana tra il 9 e il 15 dicembre, quindi pochi giorni fa. Quarantasette bombardamenti sabato 15, ventisei bombardamenti venerdì 14, trentadue bombardamenti giovedì 13 e così via: è vero che di questa coda di guerra contro lo Stato islamico nella Siria orientale si parla pochissimo in tv e molti americani saranno sorpresi dal sentire che i soldati si ritirano da un fronte che non ricordavano, ma è difficile dire che le operazioni fossero concluse. Si era ancora nel mezzo della battaglia. Lo dicono i curdi, che giovedì hanno parlato in un comunicato ufficiale di “grave errore di Trump” e ora parlano di ritirarsi dalla prima linea e liberare i tremiladuecento prigionieri dello Stato islamico che gli tocca mantenere in attesa che i governi diano loro istruzioni. Tra i combattenti che potrebbero tornare in libertà ci sono almeno due “Beatles”, quelli che rapivano e decapitavano ostaggi, e di certo un paio di italiani. I curdi dicono che saranno costretti a ripiegare per usare tutte le risorse a loro disposizione contro la minaccia di un intervento militare della Turchia. Pochi giorni fa una cellula dello Stato islamico in Marocco ha ucciso due turiste scandinave proprio per vendicare “i nostri fratelli bombardati ad Hajin”. Hajin è la cittadina in Siria dove curdi e fanatici dello Stato islamico stanno combattendo, adesso non ci saranno più raid aerei.
Does the USA want to be the Policeman of the Middle East, getting NOTHING but spending precious lives and trillions of dollars protecting others who, in almost all cases, do not appreciate what we are doing? Do we want to be there forever? Time for others to finally fight.....
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 20 dicembre 2018
....Russia, Iran, Syria & many others are not happy about the U.S. leaving, despite what the Fake News says, because now they will have to fight ISIS and others, who they hate, without us. I am building by far the most powerful military in the world. ISIS hits us they are doomed!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 20 dicembre 2018
Che la campagna contro lo Stato islamico non fosse finita lo ammette lo stesso Trump nei tweet successivi a quello della vittoria, quando dice che ora dovranno essere Russia, Siria e Iran a combattere contro lo Stato islamico e per questo “non sono contenti”. In realtà non sembrano così insoddisfatti, visto che ieri Putin s’è congratulato con Trump per la decisione in attesa di farlo di persona all’incontro previsto fra un mese. Quelli pietrificati invece sono i generali del Pentagono e gli uomini del dipartimento di Stato e del consiglio nazionale di Sicurezza che avevano tentato di imporre al presidente una linea politico-militare che lui non sentiva sua e che infine ha cancellato con un tweet. I generali americani da anni giurano ai curdi che sarebbero rimasti al loro fianco, ma sono stati smentiti. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, a settembre diceva che le truppe americane avrebbero lasciato la Siria soltanto dopo l’Iran, ma è stato smentito. Lunedì l’inviato speciale nominato da Trump per la Siria, James Jeffrey, minacciava il presidente siriano Bashar el Assad e diceva che “se la sua strategia è aspettare che ce ne andiamo, meglio che sappia che andrà via prima lui”, ma è stato smentito. Il potere esecutivo è nelle mani del presidente e con una singola decisione ha ridotto a zero le posizioni annunciate dalla sua macchina militare e diplomatica. Il messaggio al mondo è chiaro: qualsiasi garanzia o rassicurazione riceviate da diplomatici di altissimo livello o da generali americani, non ascoltateli perché nemmeno loro sanno quello che succederà e le loro parole non valgono un mezzo tweet del presidente. Da mesi si parla di come alla Casa Bianca un’alleanza informale fra i pezzi grossi dello staff del presidente lavori per prevenire decisioni troppo dannose – fino al punto da rubargli i documenti dalla scrivania. Ebbene, l’alleanza è impotente. Trump ha preso la decisione di consegnare la Siria a Russia e Iran e gli alleati curdi alla Turchia durante una telefonata con il presidente turco Recep Tayyep Erdogan, con cui il presidente americano sembra molto cedevole. Vuole vendergli i sistemi antimissile Patriot e negozia sull’estradizione di Fetullah Gulen, nemico storico di Erdogan che credeva di essere al sicuro in America. Si dice che un giorno Trump abbia chiesto al generale Jim Mattis, il suo capo della Difesa, quale fosse il modo più veloce di lasciare l’Afghanistan, un altro teatro di operazioni detestato dal presidente. Mattis dette una risposta sempre valida: “Perdere la guerra”.