Il Putin percepito
Da questa parte della Cortina di ferro resiste il mito del putinismo, ma di là le crepe si vedono in diretta tv
Milano. Sarebbe stata da trasmettere integralmente, la conferenza stampa di fine anno di Vladimir Putin, uno dei massimi riti del putinismo. Uno spettacolo da vedere, per osservare in azione il mito che ormai vive di vita propria, talmente enorme che la giornalista del Wall Street Journal chiede al presidente russo se lui vuole governare il mondo intero, e lui, un po’ spiazzato, le spiega – come un dato di fatto – che il mondo è governato da Washington, gli Stati Uniti hanno “un’economia fortissima e una grande potenza militare”. Da questa parte dell’ex cortina di ferro si crede che Putin sia la mano che manovra tutto, dagli hacker ai killer dei servizi segreti, da Trump ai gilet jaunes, ma il padrone del Cremlino è convinto che i francesi sono arrabbiati perché Macron gli ha aumentato il prezzo della benzina per finanziare le energie alternative, e gli abitanti delle banlieues ora faticano a pagare il pieno per raggiungere Parigi.
L’impressione che il presidente Putin viva in un altro mondo, sospetto che la cancelliera tedesca Angela Merkel ha avuto già anni fa, ora sembra condivisa perfino dai giornalisti russi, e in tanti gli chiedono come mai i dati che lui snocciola sull’economia sono così palesemente in contrasto con la vita reale. La risposta del capo di stato è semplice: sono statistiche che rappresentano una media, e poi “non siamo bravi a spiegarli”. Le discrepanze numeriche vengono notate subito anche dai media non ostili: Putin minimizza il calo dei redditi dei russi perfino rispetto alle stime dei suoi stessi ministeri, in compenso sostiene che i russi sono ben 160 milioni (erano 144 fino al giorno prima), si inceppa, si confonde, si contraddice, qualche volta addirittura non riesce a finire la frase, e al giornalista afghano che gli chiede di una risoluzione sul suo paese che Mosca ha bloccato all’Onu risponde di non sapere di cosa stia parlando.
Anche il suo famoso umorismo gelido e aggressivo è attenuato, risponde con formule rituali alle domande sui vari dossier – l’Ucraina, l’attacco a Salisbury, il Russiagate americano – e si infervora soltanto quando viene interrogato sullo scisma della chiesa ortodossa ucraina con Mosca, chiamando il patriarcato di Costantinopoli “parrocchia di Istanbul” ed esprimendo il sospetto, da bravo marxista di scuola Kgb, che il patriarca Bartolomeo voglia concedere a Kiev lo status di chiesa autocefala “per fare soldi”. Putin sembra stanco di giocare al risiko geopolitico, e alla politica internazionale viene dedicato pochissimo spazio, a parte l’invito a Donald Trump di incontrarsi, che ormai viene lanciato dal Cremlino ogni giorno, e un commento sulla Brexit, che non si può non fare perché il popolo britannico si è espresso al referendum: forse non sa che, a differenza della Crimea, era un voto consultivo, e che nelle democrazie cambiare idea non è un reato.
Lo spettacolo vero non era più il one man show di un presidente stanco e annoiato, ma la platea. Tra giornalisti di regime (che chiedevano di inserire il “patriottismo” come obbligo nella Costituzione e costringere i giornali a dare solo notizie positive), i dissidenti di Sua Maestà, i cronisti di provincia venuti a perorare cause locali e i matti del villaggio, il tono prevalente delle domande è stato però preoccupato. Non per la grandezza della Russia sulla scena globale, anche perché ormai l’isolamento internazionale è abbastanza evidente, e le agenzie del Cremlino a ogni comparsata del presidente sulla scena mondiale sottolineano ogni stretta di mano che gli viene concessa, e si entusiasmano se qualcuno gli dà pacche sulle spalle, anche se questo qualcuno è il principe saudita Mohammed bin Salman, come è accaduto al recente G20 in Argentina. A preoccupare sono l’ambiente, la corruzione, gli abusi dei burocrati e le torture della polizia, ma soprattutto la povertà, fino al grido di un impacciato giornalista di Vladivostok: “Insomma, ce lo dica, che con la riforma delle pensioni lei è stato tratto in inganno, e la abolisca”. La vecchia storia dello zar buono e dei boiari cattivi, ed è lo stesso Putin a scherzarci tristemente sopra, ma l’impressione dello scollamento dalla realtà rimane, come quando il presidente afferma che i farmaci made in Russia sono della stessa qualità di quelli occidentali, o quando propone come modello per i giovani i parà invece dei rapper che propagandano la droga e il suicidio, e soprattutto quando sostiene che l’occidente impone sanzioni alla Russia per arginarla come concorrente.
Al posto dell’entusiasmo plebiscitario sta arrivando una sorta di disincanto deluso, e sui siti di molti principali media russi i “non mi piace” hanno di gran lunga superato i “mi piace” nella diretta online della conferenza stampa, e alcune tv hanno preferito, per evitare guai, disattivare le chat. I giornalisti di provincia chiedono perché Putin non incontra i governatori dell’opposizione, appena eletti in una sfilza di elezioni fallimentari per il suo partito Russia Unita. Non sono solo i numeri dei sondaggi a mostrare il brusco calo di consensi al capo del Cremlino: la sensazione di scetticismo è palpabile, e il primo a sentirla è proprio Putin, che abbassa i toni, modera le parole, evita gli argomenti scomodi, che stanno diventando sempre più numerosi.
Dalle piazze ai palazzi