La “politica dell'ibuprofene” in Catalogna
Il premier spagnolo Pedro Sánchez aveva una strategia conciliante con Barcellona. Gli estremismi lo hanno sopraffatto
Roma. Nella testa di Pedro Sánchez, la giornata di venerdì avrebbe dovuto essere il culmine di una ponderata strategia di distensione tra Barcellona e Madrid. Il presidente del governo spagnolo ha portato tutto il suo governo, quel governo bellissimo a maggioranza femminile che è stato acclamato in tutto il mondo, nel capoluogo catalano, per approvare alcune riforme simboliche e per mostrare che Madrid ha il volto sorridente delle ministre e dei ministri del governo socialista, non quello arcigno dell’esecutivo lacrime e sangue di Mariano Rajoy, il suo predecessore conservatore. La data, il 21 dicembre, era simbolica: un anno fa si sono celebrate in Catalogna le elezioni, quelle indette dopo la dismissione dell’articolo 155, che aveva messo sotto tutela il governo secessionista catalano. Nella testa di Pedro Sánchez, portare un consiglio dei ministri a Barcellona il 21 dicembre avrebbe voluto dire: eccoci, nel giorno in cui festeggiate il ritorno alla normalità noi siamo qui a sostenerla, questa normalità.
Qualche tempo fa il ministro degli Esteri Josep Borrell – lo ha ricordato venerdì il Financial Times – aveva definito questa strategia come la “politica dell’ibuprofene”: la Catalogna non è un problema strutturale che va gestito con misure straordinarie, è semplicemente un’infiammazione dell’ordine costituzionale che va trattata con farmaci da banco, senza nemmeno la prescrizione del medico.
Ma l’ibuprofene non è bastato. E venerdì, mentre ministri e ministre si mettevano in posa per la foto ricordo, a Barcellona sembrava che ci fossero più poliziotti antisommossa che turisti – 9.000 in tutto, tra Mossos d’Esquadra, la polizia locale, e Guardia Civil, la polizia nazionale che è stata chiamata da Sánchez quando ha capito di non potersi fidare con certezza assoluta della lealtà delle forze dell’ordine catalane. Il governo ha approvato alcune riforme molto simboliche di distensione, come per esempio una condanna ufficiale dell’esecuzione sommaria di Lluis Companys, presidente catalano che nel 1940 fu messo a morte dal regime franchista, e il cambiamento del nome dell’aeroporto di Barcellona, che da El Prat passerà a essere intitolato a Josep Tarradellas, un altro ex governatore catalano. Sánchez ha poi approfittato dell’attenzione mediatica per approvare alcune misure di sapore decisamente elettorale, come l’aumento dello stipendio di un 2,25 per cento a 2,5 milioni di dipendenti pubblici e un aumento del salario minimo per alcune categorie di lavoratori, che in tutto riguarderà 5 milioni di persone.
Ma nessuna misura ha distolto l’attenzione dei media su Barcellona in stato d’assedio. I disturbi sono stati minori di quelli che si temeva alla vigilia, quando si parlava di un ritorno al primo ottobre 2017, sanguinosa giornata referendaria, ma l’intera città è rimasta bloccata per un giorno, le cariche tra polizia e manifestanti si sono susseguite mattina e pomeriggio, e alla fine 12 persone sono state arrestate e 77 ferite. Nel frattempo, gruppi di manifestanti bloccavano le strade.
Il caso più notevole della giornata è stato l’aggressione, da parte dei secessionisti dei “Comités de Defensa de la República”, uno dei gruppi catalani più estremisti, del giornalista Cake Minuesa, preso a pugni mentre faceva una diretta televisiva. In serata, poi, mentre i ministri si imbarcavano di ritorno a Madrid dall’aeroporto appena rinominato, altri gruppi indipendentisti indicevano una gran manifestazione nel centro di Barcellona, per gridare che il consiglio dei ministri in città non è certo un gesto di distensione, ma semmai una “provocazione”.
Giovedì Sánchez si era incontrato con Quim Torra, governatore catalano, e gli aveva promesso che il governo avrebbe cercato una “proposta politica” sul “futuro della Catalogna”, che significa: siamo pronti a negoziare. Questa concessione, unita alla concitazione della giornata di piazza, ha fatto scatenare le forze d’opposizione. Sia Pablo Casado, leader del Partito popolare, sia Albert Rivera, leader di Ciudadanos, hanno attaccato Sánchez per la sua cedevolezza, con Rivera che ha chiesto le dimissioni del premier per aver “umiliato” il popolo spagnolo dimostrandosi tanto accomodante con Torra.
Estremisti contro estremizzati
Quelli di Vox, il partito estremista che sia Casado sia Rivera cercano di scimmiottare sulle questioni del secessionismo catalano per non farsi rubare voti a destra, non si limitano alle dichiarazioni. Il leader del movimento con tendenze neofasciste, Santiago Abascal, ha twittato venerdì: “I traditori del governo e della Generalidad (il governo locale catalano, ndr) sono stati protagonisti di uno dei giorni più infami della storia recente della Spagna. I catalani, nel frattempo, rimangono in ostaggio di energumeni che occupano le strade. Nessuno rimarrà impunito. Puniremo i responsabili e faremo rivivere la Spagna”. Ma Vox è da mesi che organizza manifestazioni, anche violente, in Catalogna (non quella di venerdì), chiedendo la fine di ogni tipo di autonomia e punizioni dure per gli indipendentisti, con la conseguenza di radicalizzare il discorso pubblico a proprio favore.
Sánchez è stretto tra due mali complementari: l’estremismo dei secessionisti catalani da un lato e una politica spagnola che si estremizza sempre di più. L’ibuprofene non basta.