Theresa May (foto LaPresse)

E se a Theresa May riuscisse il miracolo sulla Brexit?

Gabriele Carrer

I movimenti interni ai Tories, i dubbi dei laburisti su un nuovo referendum, lo spettro di un governo guidato da Corbyn. Su cosa punta la premier per far passare il suo accordo in Parlamento

Il Project Fear imbastito nel 2016 dall’allora premier David Cameron con il suo cancelliere George Osborne altro non ha fatto che alimentare il risentimento popolare e spingere il Leave alla vittoria sul Remain. Ma il suo successore a Downing Street, Theresa May, ha deciso comunque di avviare, prima della pausa natalizia, l’Operation Panic, come l’ha ribattezzata il Times di Londra. Un regalo a tutti e 650 i deputati della Camera dei Comuni, in particolare ai 317 del suo Partito conservatore lacerato dalla battaglia per la Brexit. Sulla scatola una scritta: handle with care, maneggiare con cura. All’interno, l’accordo per la Brexit da lei negoziato a novembre con l’Unione europea. Una scena da party di Natale della Brexit “no deal”, come ha ironizzato Matt, il vignettista del Telegraph: “Arrivate presto, prima che tutto finisca e la gente muoia”.

  

 

Il caos legato all’uscita del Regno Unito senza un’intesa con Bruxelles, cioè il peggior scenario, il “no deal”, è il cuore dell’Operation Panic messa in piedi dal premier che in questo caso, probabilmente per la prima volta in due anni e mezzo a Downing Street, può contare su una certa compattezza del suo gabinetto. “Soltanto perché hai messo la cintura di sicurezza, non significa che stai per schiantarti in auto”, ha detto Amber Rudd, segretario al Lavoro, lasciando intendere che il governo si sta preparando al peggio. Lo sta facendo stanziando 2 miliardi di sterline in più rispetto ai già impegnati 4,5 in caso di scenario peggiore, mobilitando 3.500 soldati per “qualunque evenienza” in vista di unuscita senza accordo, imponendo una stretta all’immigrazione, preparando spazi sulle navi per le scorte di generi alimentari e farmaci, scrivendo lettere alle aziende britanniche affinché si organizzino per il “no deal”, assumendo 90 nuovi dipendenti da inserire in ununità d’emergenza del ministero dell’Ambiente.

 

Certo, la Commissione europea non sta a guardare. Ha presentato, infatti, il suo piano demergenza, un pacchetto di 14 misure destinate a contenere i danni e riguardanti molti aspetti cruciali dei rapporti tra le due sponde della Manica, in particolare per il funzionamento dei servizi finanziari, del trasporto aereo e di quello terrestre e delle dogane. Lo stesso ha fatto il governo irlandese pubblicando un documento di 131 pagine in cui si spiegano le pesanti ripercussioni del “no deal” sui porti irlandesi, le spedizioni, i viaggi e la sicurezza.

 

Ma la partita si gioca a Londra, dove Nick Boles, deputato conservatore che fu protagonista del Notting Hill set cameroniano, ha minacciato di votare contro il governo nel caso in cui il Parlamento rigettasse l’accordo della May, spiegando però che il 29 marzo 2019 deve esserci la Brexit. E i “like” di Amber Rudd, del segretario alla Giustizia David Gauke e di quello all’Educazione Damian Hinds al tweet di Boles confermano quella compattezza del gabinetto che alla May è sempre mancata.

 

 

Con quel tweet, allo spauracchio del panico sui mercati e per le città, Boles ne aggiunge un secondo: quello di un governo laburista guidato da Jeremy Corbyn, che non è soltanto un ex euroscettico alla guida del partito più europeista del Paese nel bel mezzo della campagna per il referendum e durante i negoziati, ma è anche, per il suo approccio statalista e anti libero mercato, una delle maggiori preoccupazioni per le aziende britanniche e gli investitori stranieri. E poi sì, è anche quello che ha definito “stupid woman” la May provando poi a negare tutto con una potente quanto disperata campagna mediatica.

 

 

E forse, a giudicare dalla lite tra Andrea Leadsom, leader della Camera dei Comuni (cioè il ministro per i rapporti con il Parlamento), e lo speaker John Bercow, la pausa natalizia arriva al momento giusto, dopo dodici durissimi mesi di confronto a Westminster senza esclusione di colpi. Leadsom ha ricordato il precedente “stupid woman gate» ai Comuni, quando cioè Bercow la insultò con le stesse parole usate Corbyn contro la May.

 

  

E nell’Operation Panic sembra rientrare anche la recente ma tiepida apertura di Amber Rudd, che nel 2016 fu tra i più attivi nel campo del Remain, a un secondo referendum. Rudd, il cui fratello Roland è il numero uno del gigante delle pubbliche relazioni Finsbury, in prima linea nella campagna People’s Vote, ha spiegato che esistono “ragioni plausibili” per ridare la parola ai britannici nel caso in cui i Comuni non riuscissero a trovare una soluzione per l’uscita dall’Unione europea.

 

In quest’ottica attenzione al campo laburista, dove Len McCluskey, segretario generale del sindacato Unite e grande alleato di Corbyn, è intervenuto sul New Statesman per avvertire che un nuovo referendum è un grosso rischio per il Labour e per il Paese. McCluskey dice ciò che molti nel partito pensano ma non hanno il coraggio di dire: un nuovo voto genererebbe soltanto altro caos senza peraltro la certezza di una vittoria del Remain. E non è il solo a sinistra a temere un ritorno alle urne sulla Brexit. Molti deputati hanno posizioni simili, tra questi anche Gloria De Piero, non certo un’amica di Corbyn e neppure una brexiter, che su Twitter ha ripreso l’intervento di McCluskey.

 

  

Molti laburisti potrebbero sfruttare la pausa natalizia per convincersi che a questo punto, a poche settimane dal 29 marzo della Brexit, sono meglio le larghe intese e la convergenza sul piano della May che un nuovo referendum per il quale sanno già, ricordando la campagna del 2016, che il loro leader Corbyn difficilmente si spenderebbe oltre il ruolo della comparsa. Votando l’accordo del premier, i deputati del Labour lascerebbero a lui soltanto la scelta tra dipingersi ancora una volta vittima dei suoi stessi deputati e diventare per la prima volta un difensore degli interessi del Paese.

E se a ciò si aggiungono i ripensamenti di molti deputati conservatori pro Brexit e la difesa della May da parte del leader dei ribelli Jacob Rees-Mogg in chiave anti Corbyn, ecco che si capisce perché, con il Parlamento che riaprirà il 7 gennaio, il premier e i suoi sono tornati a casa un po’ meno preoccupati in vista del voto sulla Brexit.

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