Soldati americani sorvegliano l’area nei pressi di Manbij, nei primi giorni dello scorso mese di novembre, in Siria (foto Reuters)

Il sovranista che fugge

Daniele Raineri

Trump toglie l’assedio allo Stato islamico, appalta la guerra a Erdogan, molla gli alleati. Come se fosse un piano vincente

"Gente, non siamo più i coglioni!”, ha detto il presidente Donald Trump durante la visita di Natale ai soldati americani in Iraq. Si riferiva alla decisione di ritirare duemila uomini dalla Siria, che secondo lui è una realizzazione piena dello spirito nazionalista che guida tutto quello che fa. Sulla carta il progetto è chiaro. Se il motto del trumpismo in politica estera è America First!, l’America viene prima, allora il presidente non vuole più mandare soldati in giro per il mondo a raddrizzare situazioni che secondo lui sono troppo storte per essere raddrizzate, non si sente più obbligato a fare il poliziotto globale, non può più sprecare risorse, uomini e mezzi che invece vorrebbe impiegare in modo più spettacolare sul fronte domestico, a casa. Vedi per esempio i cinquemila soldati schierati al confine con il Messico per fare fronte alla carovana di migranti in arrivo dal Guatemala – cinquemila, più del doppio del numero di soldati mandati in Siria per aiutare i curdi a spazzare via i resti dello Stato islamico in quel territorio. Ragazzi, ora non ci potranno più scambiare per coglioni, saranno gli altri a occuparsi dei problemi in quei posti “che la gente non ha mai sentito nominare”. Da un anno Trump premeva per richiamare i soldati dalla Siria e terminare la loro missione sul campo senza stare a vedere se serviva ancora oppure no, l’ha detto lui stesso tre giorni fa, ma i generali gli chiedevano “ancora sei mesi” e dopo quelli “altri sei mesi”, fino a quando lui non è sbottato e ha dato l’ordine di ritirarsi. Delle condizioni sul terreno e del fatto che lo Stato islamico fosse sconfitto oppure no non gli fregava nulla, voleva soltanto fare il gesto pubblico di riportare indietro i soldati americani e lasciare il campo libero alla Turchia e alla Russia e a chiunque altro abbia intenzione di riempire quel vuoto. E ci è voluta una telefonata con il presidente turco Recep Tayyep Erdogan per far scattare la decisione.

 


Donald Trump durante una visita al cimitero nazionale di Arlington (Foto LaPresse)


 

Il primo giorno di dicembre il presidente turco Recep Tayyep Erdogan e il presidente americano Donald Trump si sono incontrati in Argentina durante la sequenza veloce di appuntamenti faccia a faccia che fa sempre da contorno a ogni G20. I due, secondo il resoconto ufficiale, hanno parlato della situazione tesa tra Ucraina e Russia, ma è molto probabile che abbiano parlato anche dell’accordo sottobanco tra Trump, Erdogan e i sauditi che ha salvato il posto al principe erede al trono saudita Mohammed Bin Salman: i turchi hanno un audio orrendo di un omicidio politico compiuto dai sauditi a Istanbul (la vittima era un giornalista, Jamal Khashoggi), non l’hanno passato ai giornalisti, non hanno esercitato tutta la pressione che potevano esercitare, ora si aspettano riconoscenza dal principe e dal presidente americano. Venerdì 14, due settimane dopo, Erdogan e Trump si sono risentiti al telefono e il turco come al solito si è lamentato che appena al di là del confine la Siria del nord è in mano ai curdi, che sono sulla lista americana dei gruppi terroristi ma negli ultimi tre anni sono stati protetti dagli americani (perché erano impegnati in una missione essenziale: distruggere i resti dello Stato islamico in Siria) e che non capisce perché Trump tiene i soldati laggiù anche se “ha già vinto contro lo Stato islamico”. E’ una lamentela di routine che va avanti dall’ottobre 2015, quando gli americani mandarono cinquanta soldati delle Forze speciali in territorio curdo che poi con il tempo sono diventati duemila sparpagliati in una decina di basi militari. Spesso Erdogan minaccia di entrare con i suoi soldati in quella zona della Siria, senza poi farlo. Al telefono Trump gli ha risposto così: “You know what? It’s yours. I’m leaving”. Sai che c’è? E’ tua. Io me ne vado.

America first, il presidente non vuole più mandare soldati in giro per il mondo a raddrizzare situazioni che secondo lui sono troppo storte

Gli americani lasciano il campo ai russi e lo fanno pure gratis senza chiedere nulla in cambio: è una capitolazione senza trattare

Così il presidente americano ha appaltato alla Turchia la lotta contro lo Stato islamico nella Siria orientale. Dal punto di vista geografico è un annuncio senza senso perché il gruppo terrorista infesta la parte bassa del corridoio dell’Eufrate che da Raqqa porta verso il confine iracheno. E’ come chiedere all’Austria di sradicare un gruppo terrorista in Umbria, con la differenza che le centinaia di chilometri da percorrere in mezzo sono territorio occupato da curdi ostili alla Turchia. In teoria, per andare a combattere lo Stato islamico l’esercito turco prima dovrebbe spazzare via i curdi, poi dovrebbe sfidare il regime del presidente siriano Bashar el Assad e i suoi sponsor, la Russia e l’Iran, che vogliono tutto quel territorio di nuovo sotto il loro controllo. Se riuscisse a fare entrambe queste cose, il che vorrebbe dire vincere una guerra che potrebbe essere più lunga di quella combattuta finora, allora potrebbe affrontare lo Stato islamico (che nel frattempo avrebbe riguadagnato forza, perché è una cosa che sa fare molto bene). Dire “It’s yours” a Erdogan non ha senso dal punto di vista della guerra al terrorismo. Ha un senso soltanto: senza la presenza di noi americani, i curdi siriani che si comportano come se avessero un loro stato al di là del tuo confine non saranno più un grande problema per te.

Quando i separatisti catalani sono scesi in piazza contro il governo spagnolo un anno fa i media di stato russi (ma è sempre più difficile trovare media russi che non siano “di stato”, no?) si sono gettati con fervore dalla loro parte perché secondo la propaganda nazionalista e sovranista i popoli sovrani hanno diritto all’autodeterminazione. I catalani hanno diritto di staccarsi dalla Spagna e tutti i singoli stati europei farebbero bene a rompere l’Unione europea, secondo i megafoni russi che poi troviamo tradotti paro paro nelle dichiarazioni dei loro fan italiani. Quando però il presidente Trump ha abbandonato i curdi e la loro causa – dopo che i curdi hanno perso diecimila uomini e donne nella guerra contro i fanatici islamisti – i media russi hanno celebrato la decisione americana come “molto saggia”. La ragione è ovvia: gli americani lasciano il campo ai russi e lo fanno pure gratis senza chiedere nulla in cambio, è una capitolazione senza trattare, la Russia diventa di colpo il potere che prende le decisioni in quella regione. Ma tutta la storia dei diritti dei popoli sovrani si rivela per quel che è, paccottiglia ideologica che incanta le masse sui social media ma è molto pompata per una sola ragione: perché qualsiasi cosa porti imbarazzo, scompiglio e instabilità dentro un paese dell’Unione europea è una cosa che va molto bene per la Russia. Quando è venuto il turno dei curdi, il loro diritto a prendere decisioni sovrane sul loro destino è di colpo svanito. Quando il rais siriano Bashar el Assad aveva il controllo su di loro li trattava come una minoranza da tenere sotto pressione, niente lingua curda nelle scuole, rilascio di un numero molto limitato di passaporti per impedire che andassero in Iraq, Iran e in Turchia dove è possibile incontrare altri curdi, nessun diritto all’identità curda. Adesso, a quattro anni dalla resistenza disperata nel cantone di Kobane che cambiò l’andamento della guerra contro l’Isis, i curdi siriani se saranno fortunati saranno reintegrati nella Siria di Assad senza punizioni. E dire che se il rais e i russi avessero dovuto occuparsi loro della guerra contro lo Stato islamico, chissà ancora a che punto saremmo. I curdi hanno rischiato di essere battuti dai fanatici pure con la protezione degli aerei americani, che in Siria hanno fatto quasi duecentomila raid aerei e sono molto più efficaci e precisi di quelli russi.

Avevamo anche capito dopo anni di propaganda nazionalista che uno dei grandi difetti dei globalisti sorosiani è la loro tendenza a fare piedino con i peggiori soggetti del pianeta. I liberal pretendono di essere migliori degli altri – così dicevano i trumpiani – ma poi sono molli e accomodanti quando trattano con gli autocrati cattivi, siano essi i turchi, i sauditi oppure gli iraniani. I nazionalisti invece sostenevano di essere di un’altra pasta, dichiaravano che se fossero arrivati al potere non sarebbero stati per nulla cedevoli e si sarebbero comportati da campioni dell’occidente che finalmente si risveglia, pronti a parlar chiaro e diretto con i leader islamici – anzi islamisti. Avevamo capito insomma che era meglio che Hillary Clinton non fosse eletta alla presidenza dell’America perché era troppo compromessa con i sauditi e che l’Unione europea è troppo passiva con la Turchia del presidente Recep Tayyep Erdogan. Avevamo capito tutto questo, ma come spesso capita era appunto soltanto propaganda per fessi. Da Salvini che si presenta in felpa e panino su Facebook ma in smoking alla cena con l’emiro del Qatar fino a Trump che molla la guerra al terrorismo a Erdogan durante una telefonata, l’occidente nelle mani dei sovranisti non sembra in forma smagliante. Non siamo più i coglioni, gente!

Quando nel 2001 l’Amministrazione Bush spazzò via i talebani dall’Afghanistan con un modello che era molto simile a quello di oggi nella Siria orientale – poche forze speciali a terra, cacciabombardieri nei cieli e le milizie dell’Alleanza del nord a fare il grosso del lavoro – non riuscì a stringere le maglie come avrebbe voluto e molti uomini di al Qaida fuggirono. Abu Mussab al Zarqawi, che se ne stava in un campo d’addestramento a parte, riuscì a involarsi verso l’Iran e da lì fu aiutato a passare in Iraq, dove un paio di anni più tardi divenne il terrorista più ricercato del paese e il padre fondatore dello Stato islamico. Osama bin Laden e il suo vice, l’egiziano Ayman al Zawahiri, furono assediati tra le montagne di Tora Bora ma il confine pachistano era molto vicino e si smaterializzarono. Bin Laden fu ucciso nove anni più tardi da un’operazione congiunta di Cia e forze speciali americane, al Zawahiri è ancora libero ed è il capo di al Qaida. Tutti i resoconti dei soldati americani che allora erano sul campo concordano: l’America voleva eliminare del tutto al Qaida che aveva appena colpito New York e Washington, ma su quel terreno molto difficile dipendeva dall’aiuto degli alleati locali – che in alcuni casi non erano così alleati come facevano credere, vedi il Pakistan. I giochi politici erano più forti e veloci delle operazioni militari sul campo. I capi dei talebani e di al Qaida sparirono nel nulla. Oggi la situazione è simile. Lo Stato islamico difende con sforzi disperati l’ultima striscia di territorio sotto il suo controllo, a sud della cittadina di Hajin, nel deserto siriano tra il fiume Eufrate e il confine con l’Iraq. E’ un territorio poco abitato e attraversato da lunghi crepacci desertici che nascondono uomini e mezzi alla vista dei nemici e da sempre ha garantito profondità strategica al gruppo terrorista, è il grande nascondiglio dove si rifugia nei periodi di crisi per poi riapparire dal versante siriano e dal versante iracheno più forte di prima. I curdi erano impegnati in una campagna militare per snidare i fanatici dalle ultime piccole cittadine, una per una, con l’aiuto degli aerei americani che sono capaci di sbloccare qualsiasi situazione. C’è un cecchino nascosto su un tetto che ferma l’avanzata? I curdi passano la posizione alle forze speciali americane che chiamano gli aerei che colpiscono quel tetto. C’è un convoglio di rinforzo dello Stato islamico in avvicinamento? Ci pensano gli americani. Se non ci fosse questa coordinazione, saremmo ancora al 2014, quando lo Stato islamico dominava un territorio più grande della Gran Bretagna.

A metà dicembre al telefono con il presidente turco ha detto: “Sai cosa c’è? E’ tua. Io me ne vado”. Stava parlando della Siria

Al Pacino in “Carlito’s Way” diceva: “The street is watching, all the time”. La strada ti osserva, prende nota se tradisci debolezza

I fanatici dello Stato islamico in Siria e in Iraq sono dei duri, ma da due anni sono in crisi. Il meccanismo curdi più bombardamenti li stritola, posizione dopo posizione. Continuano a far uscire dei filmati di propaganda dalla zona di Hajin, e il tono che hanno scelto è di sfida in faccia a forze soverchianti, considerano quello che sta succedendo come se fosse la loro battaglia di Fort Alamo. Si resiste fino all’ultimo. Spesso ringraziano Dio perché ha mandato due, tre giorni di maltempo di seguito, il vento alza la sabbia, le nuvole basse impediscono agli aerei e agli elicotteri americani di volare, allora danno l’assalto alle posizioni curde che spesso sono soltanto un paio di tende circondate da una montagnola di terra. In quei casi sono ancora imbattibili. Incendiano le tende, ammazzano i curdi sul posto o li fanno prigionieri per scambiarli – o per ammazzarli in altri video di propaganda – prendono armi e munizioni. E così andavano avanti da mesi, si ritiravano di dieci chilometri e ne riguadagnavano cinque, si disperdevano sotto le bombe – duecento bombardamenti aerei a settimana, nell’indifferenza totale del mondo – e si raccoglievano di nuovo per bloccare le colonne delle milizie curde che avanzavano. Un finale di guerra bizzarro, che era sparito dai giornali e televisioni, dove per un meccanismo comprensibile ogni attentato minore riempie le pagine per giorni ma il conflitto contro i mandanti degli attentati non interessa. E a questo punto Trump ha deciso di staccare la spina. Se i fanatici ringraziavano Dio per un paio di giorni di maltempo, chissà cosa diranno ora che il presidente americano ritira le forze speciali più addestrate del pianeta e gli aerei più letali da quella zona e lascia le milizie curde a vedersela con altri nemici perché aveva deciso di farlo già “sei mesi fa e sei mesi ancora prima”. Non siamo più i coglioni gente!

Al Pacino in un gangster movie del 1993, Carlito’s Way, diceva: “The street is watching, is watching all the time”. La strada guarda quello che fai, ti osserva, prende nota se tradisci debolezza. Vale dappertutto, un po’ di più in medio oriente. Se l’America decide di ritirare i duemila soldati d’appoggio contro lo Stato islamico dalla culla dello Stato islamico (chissà se Trump sa che ci sono duecento soldati americani schierati contro lo Stato islamico nelle Filippine), i governi dell’area fanno in fretta i loro calcoli. Non vogliono che la Turchia oppure l’Iran diventino troppo forti e cominciano a corteggiare il rais siriano Bashar el Assad. Questa settimana gli Emirati arabi uniti e il Bahrein hanno riaperto le loro ambasciate a Damasco, le avevano chiuse quando il presidente siriano aveva dato l’ordine all’esercito di fermare le manifestazioni in piazza con la forza militare, presto seguiranno anche il Kuwait e dopo altri paesi, come l’Egitto e l’Arabia Saudita. Viene in mente quello che disse l’ambasciatore americano Ryan Crocker dopo otto anni di guerra quando l’allora presidente Barack Obama ordinò il ritiro delle truppe dall’Iraq nel 2011. “I fatti per cui ricorderemo di più la guerra in Iraq devono ancora succedere”. Aveva ragione, gli americani dovettero tornare nel giro di tre anni perché un terzo del paese era finito in mano agli estremisti. Il primo governo dell’Unione europea a riaprire l’ambasciata a Damasco in Siria potrebbe essere l’Italia.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)