Così le spoglie di Franco sono diventate un'uggiosa faccenda di carte intestate
Il trasferimento del corpo del dittatore spagnolo decisa da Sánchez era un’intuizione potenzialmente fulminante. Poi si è trasformata in un problema
Milano. Il premier spagnolo Pedro Sánchez ogni tanto ha un’intuizione fulminante. Tanto che, proprio con uno di questi sfolgorii imprevedibili, la passata primavera, nel giro di poche ore, ha messo quel suo sorriso da cinematografo alla guida del governo, innescando un’inedita acrobazia successoria tutta parlamentare. Sánchez era così in forma che, non appena insediato, si è inventato all’impronta una ingegnosa zapaterata: le spoglie di Francisco Franco sarebbero state rimosse nel giro di pochissimo dal Valle de los Caídos, il mastodonte monumentale che a 59 chilometri dalla Puerta del Sol di Madrid, l’epicentro da cui partono tutte le strade del Regno, finge da decenni di celebrare i caduti della Guerra civile esaltando invece soltanto il ricordo ammuffito della sanguinaria dittatura.
Mentre il governo Zapatero aveva finito per impantanarsi in un’organica Legge della memoria storica, l’iniziativa di Sánchez sembrava assai più efficace nella sua semplicità: è normale che in un paese democratico l’ex dittatore riposi da quarantré anni sotto l’omaggio di una croce alta quasi due volte la Statua della Libertà e visibile a decine di chilometri di distanza? Chi pensa di no, metta sotto il dito. Così, mentre la Chiesa, che gestisce il luogo in cui è sepolto Franco, ha fatto poco più di un plissé e ha dato via libera allo stato, Sánchez in un sol colpo ha scavalcato a sinistra Podemos, ha fatto un figurone negli ambienti catalanisti senza doversi compromettere sul tema dell’indipendenza e ha mandato in affanno i popolari e i forse-liberali-chissà di Ciudadanos, che si sono astenuti bofonchiando dei “non è una priorità”. Tra l’altro – sarà un bene o sarà un male? – con la polemica sulle spoglie del dittatore si è finalmente slatentizzata, uscendo dal subconscio politico, quella quota di fascisti che finora era nascosta nelle pieghe di elettorati diversi e che nei sondaggi spagnoli (e in Andalusia direttamente nelle urne) è andata a gonfiare i consensi sovranisti di Vox e a infittire la turba dei visitatori del Valle de los Caídos, in fila per un selfie con il braccio alzato (no, non quello che regge il telefono).
In un momento in cui tutta la politica “tradizionale” europea trema, il fatto che il leader di uno dei due grandi partiti di Spagna si fosse messo a suonare con decisione la tromba del “chi sta di qui e chi sta di là” su un tema tanto semplice – cioè la prosecuzione di un coreografico omaggio a un dittatore – avrebbe potuto in effetti essere un’intuizione fulminante: una mossa forse disperata, forse situazionista, forse volpina, ma comunque una mossa con cui tentare di rifondare una democrazia che è in difficoltà, forse anche perché continua a poggiare – “irregolarmente”, per così dire – su dei tabù, come l’inamovibilità delle ossa di un despota. Certo, il refrain dice che smuovere le acque della “transizione modello” spagnola sia un atto irresponsabile, perché apre vecchie ferite. Ma, se già non bastasse la goffa gestione del problema catalano a chiarirlo, viene da domandarsi quanto “modello” possa essere una transizione i cui tiranti di sostegno debbano essere trattati con tanta cautela ancora più di quarant’anni dopo. No, il problema nasce dal fatto che al di là dell’intuizione sancheziana non c’era niente. Nessuno, ad esempio, sapeva che la famiglia Franco possiede una cappella privata nella cattedrale di Madrid in cui ora pretende di seppellire il suo Francisco, che così si troverebbe d’improvviso proprio nel centro della capitale. Il “no” arriva da un’informativa della prefettura di Madrid che invoca generiche preoccupazioni per l’ordine pubblico. Si annunciano ricorsi. E così un’intuizione potenzialmente fulminante è diventata un’uggiosissima storia di carte intestate. E questa, no, non è una priorità.