Lo stagno prosciugato dai populisti è la democrazia
Meno diritti, danni alle istituzioni, corruzione. Dettagli choc sugli effetti del populismo, e un occhio all’anno che verrà
Milano. “Rivendico orgogliosamente la natura populista della maggioranza”, ha detto venerdì il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nella tanto sospirata conferenza stampa di fine anno. “Se questo significa ridurre la frattura tra classi politiche e cittadini. Questo non è il governo delle lobby, dei potentati economici, dei comitati d’affari”, ha rivendicato Conte, ribadendo l’istinto antisistema di questo “amalgama” che è il governo d’Italia. La componente gialla e ben distinta da quella verde, ha sottolineato il premier, ma la convergenza è armoniosa: non è vero che litighiamo, anzi, qui è tutto rose e fiori, il populismo è un collante formidabile. E deleterio: l’orgoglio populista ha travolto le regole di convivenza democratica con una polarizzazione estrema delle idee, le teorie del complotto, gli attacchi ai media, l’ossessione per la fedeltà, io rispondo a te tu rispondi a me, la propaganda e soprattutto con l’imprevedibilità, che è dolorosa e al tempo stesso pericolosa.
“Ci troviamo in questa stagione particolare in cui ogni cosa è improbabile ma una di queste cose improbabili dovrà accadere”, mi ha detto Henry Zeffman, giornalista del Times di Londra specializzato in quell’arte tragica che è rappresentare graficamente la domanda “come andrà a finire la Brexit?”. Zeffman parlava del Regno Unito che davvero è alle prese con una imprevedibilità assoluta, ma questa stagione riguarda tutti i paesi sedotti dall’orgoglio populista: Donald Trump cancella con un tweet le promesse fatte per mesi dai generali e dai diplomatici americani in Siria, mentre da noi ci si rimangia la parola fingendo di non farlo, poi la si risputa fuori con toni più mostruosi e quando si chiede che qualcuno sia responsabile dello strattonamento perenne c’è sempre una manina cui dare la colpa. L’imprevedibilità fatta governo ha trasformato le aspettative: “tutto può succedere” era una promessa e ora è una maledizione, la faccia triste del cambiamento.
L’Institute for Global Change, che è stato fondato da Tony Blair, ha pubblicato un documento che cerca di determinare l’effetto del populismo sulle democrazie. I due autori, Jordan Kyle e Yascha Mounk, hanno definito i governi populisti sulla base di una retorica che li accomuna: le élite lavorano contro gli interessi del “popolo vero” e siccome i populisti sono la voce del “popolo vero” tutto quel che si oppone a loro deve essere fatto fuori. Si tratta di uno studio empirico, in cui sono stati identificati 46 leader in 33 paesi che sono al potere dall’inizio degli anni Novanta a oggi e che arriva ad alcune conclusioni fattuali: i leader populisti stanno al potere in media il doppio del tempo dei leader non populisti, soltanto il 34 per cento di loro lascia il posto dopo elezioni o allo scadere del limite dei loro mandati. Il 50 per cento dei leader populisti cambia le Costituzioni per espandere il proprio potere, il 40 per cento finisce in scandali di corruzione, e i danni a libertà civili e diritti politici sono visibili.
I governi non populisti danneggiano la democrazia il 6 per cento delle volte, mentre per i governi populisti vale per il 24 per cento dei casi: questi danni spesso non si vedono subito, ma soltanto dopo molti anni. Dieci anni dopo che Hugo Chávez aveva preso il potere in Venezuela o Erdogan in Turchia, questi paesi erano ancora considerati “democrazie piene”: di lì a poco l’erosione dello stato di diritto ha portato dritti alla dicitura “dittatura”. Come hanno scritto i politologi Steven Levitsky e Daniel Ziblatt in “How democracies die”, quando le democrazie muoiono per forze interne, come accade sempre più spesso (anche se personaggi à la Dibba invocano sempre “golpe” esterni), lo fanno “lentamente, con movimenti a malapena visibili”.
È così che cambia il sistema? Sì, con un progressivo declino delle libertà, ma il “drain the swamp” tanto caro al trumpismo non si sviluppa secondo le promesse: i paesi guidati da populisti crollano nelle classifiche sui criteri di trasparenza e di anticorruzione. In parole semplici: lo stagno che si prosciuga è quello dei diritti civili, non lo stagno delle diseguaglianze o dello strapotere di quelli che Conte chiama “i comitati d’affari”. La promessa di rifondare i sistemi governati da élite distaccate o da leader corrotti si trasforma nel suo contrario, una maledizione appunto, la faccia triste del cambiamento: “In media, i governi populisti hanno peggiorato la corruzione, hanno eroso i diritti individuali e hanno inflitto danni seri alle istituzioni democratiche”, scrivono gli autori dello studio.
Questa è una analisi empirica che comprende regimi in cui il modello democratico non ha mai davvero preso piede, e come tale individua tendenze che non possono essere applicate a tutti i paesi: nelle conclusioni, gli autori dicono chiaramente (e con un certo sollievo, anche nostro) che non esistono precedenti storici che ci permettono di stimare gli effetti di governi populisti di genesi recente su paesi da sempre democratici e ricchi, come gli Stati Uniti (o l’Italia). Ma “sarebbe un errore assumere che queste differenze possano neutralizzare ogni pericolo”. Un esempio: lo storico Niall Ferguson sostiene che i governi populisti sono talmente incompetenti che per forza avranno vita breve, mentre questo studio dimostra il contrario. Se anche la verità fosse nel mezzo, sarebbe comunque un errore contare soltanto sull’autoboicottaggio dei leader populisti. Anzi, i precedenti dimostrano che soltanto l’opposizione serrata al declino liberale può invertire le tendenze: il 2019 sarà un anno cruciale per i paesi democratici o per quelli che aspirano a diventarlo. Più di un terzo della popolazione mondiale andrà alle urne, dall’Indonesia al Canada passando per la nostra ammaccata ma potente Europa. Tutto può succedere, e alla faccia della tirannia dell’imprevedibilità, questa può essere, sa essere, ancora una promessa.