Foto LaPresse

Capodanno a Rio

Michele Masneri

Viaggio in Brasile tra l’entusiasmo delle feste, l’incubo sicurezza e l’attesa per l’insediamento di Bolsonaro

Quanta attesa per il reveillon! Copacabana si prepara, nebbiosa, al suo ennesimo Capodanno. Quando cala il sole Copacabana è triste, squallida, pericolosa, capitale del massimo reato che insieme ad altri terrorizza il turista: il furto di telefonino, praticato quasi controvoglia da piccoli borseggiatori muscolosissimi – si dice che il governo brasiliano, locale o federale, allestisca corsi di fitness in favela per un popolo orgogliosissimo del pettorale e del femorale – tra un bagno di mare e un giro di skate. Sulla Avenida Atlantica perennemente intasata (che cambia direzione a seconda dell’ora di punta), da traffico romano, tra colonne d’auto, sfrecciano su una immaginaria preferenziale milioni di moto tutte con una strana antenna con funzione poetica-magica. Servono contro gli aquiloni: l’aquilone è infatti sport e rito nazionale in Brasile, e il cordino per tenerlo su, spiegano i locali, è spesso cosparso di polvere di vetro, per tagliare eventuali ostacoli, e non impigliarsi negli arbusti. Nel caso, è in grado però anche di tagliare una testa. Ma poi – così è lo spirito brasiliano – gli aquiloni si perdono, o si dimenticano. E i motociclisti allora con rito scaramantico si dotano di antenna antidecapitazione. Non sarà vero, ma ci credono, come da noi quelli che mettevano i cd antiautovelox, e le foto di famiglia, “non correre, ti aspetto”.

 

 

La spiaggia di Copacabana (foto LaPresse)  

Quando cala il sole Copacabana è triste e pericolosa, capitale del massimo reato che terrorizza il turista: il furto di telefonino

Sul dietro, invece, le motorette hanno un bello o una bella per andare al mare, o, più frequentemente, un cassone perché i “motoboy” o pony che trasportano qualunque cosa, da Glovo in su o in giù, sono la nuova professione di base. Tra tutti gli orgogli brasiliani, c’è quello dei trasporti: pullman e metropolitane perfette con tessere e paline linde come a Milano. Aria condizionata polare ovunque, perché l’altro orgoglio è appunto il corpo, e tutti si fanno tante docce, grazie anche alla speciale doccia elettrica che alligna quaggiù, e bisogna imparare a maneggiare (l’acqua calda arriva tutta insieme con una manopola, e va diminuita subito, altrimenti intiepidisce). Nella metro, anche, vagoni riservati alle signore, in certi orari, per evitare strusciamenti. Uber è ovunque, con derivati anche locali, e deve sponsorizzare molto il comune perché il logo campeggia in ogni stazione della metro e negli aeroporti numerosi. I tassisti dopo una vaga rivolta vi convivono oggi tranquillamente. I tassisti hanno votato in massa per Bolsonaro, il temibile populista-fascista che giurerà martedì prossimo, il primo dell’anno, nella capitale Brasilia, presidiata da caccia militari. C’è troppa corruzione, dicono i tassinari. C’è infatti la loro Mani pulite, il “lavajato”, simile anche nel nome, che ha messo in carcere l’ex presidente Lula, c’è un giudice, Sergio Moro, che ha guidato la pulizia e ora farà il ministro della Giustizia. Tanti sono speranzosi: ora sì che saranno tutti onesti (è chiaro che finirà malissimo). Su Uber, che andrebbe introdotta ovunque anche solo per sentir le storie dei suoi autisti, che hanno sempre altre vite e altri lavori – guidatori più riflessivi e generalmente antifa. Con eccezioni; uno che ci dice che certo l’ha votato, Bolsonaro, mentre passiamo vicino al quartier generale di Rede Globo, la Mediaset australe, e lui quasi si commuove, è un ex autore televisivo, licenziato causa crisi, dice che “c’è troppa libertà, si puniscono i buoni e non i cattivi”; ha due lauree e parla inglese perfetto, una rarità, e lascia il suo biglietto da visita se mai servisse, sa fare anche il montatore o qualunque cosa. Sulle strade di Rio intanto sfrecciano anche le famose world car, quelle fatte dalle case automobilistiche mettendo un po’ insieme gli scarti – qua uno specchietto, là un cerchione – in estetiche non gloriose ma pratiche per un mercato enorme ma povero. Nessuna classe media, né sociale né automobilistica. Come diceva Lina Bo Bardi negli anni Cinquanta, in Brasile non c’è borghesia, ma solo aristocrazia, della terra e del popolo. E anche oggi, o utilitaria, o elicottero.

 

Il presidente Bolsonaro

 

Come diceva Lina Bo Bardi, in Brasile non c’è borghesia, ma solo aristocrazia, della terra e del popolo. Anche oggi, o utilitaria, o elicottero

Chi può va via per questo weekend di Capodanno. Dagli eliporti è tutto un continuo decollo. Anche nelle chat delle mamme di scuola l’elicottero è un tema, insieme al blindato. C’è questo tema ossessivo della sicurezza. Le gang si scontrano, fanno rapimenti, in macchina tutti coi vetri oscurati e la sera non ci si ferma col rosso. Ognuno ha una storia di “balla perdida”, la pallottola vagante che se non hai preso almeno una volta non sei un vero carioca (con conseguenti expertise: gli ospedali di Rio sono i più prestigiosi del mondo nella sofisticata nicchia dell’estrazione di proiettili). Mamme anche molto riflessive – tutti gli abbienti vanno alla scuola americana – son tranquille solo quando il figlio “torna solo col papà di John, che ha il livello di blindatura 4”: il livello di blindatura è una conversation piece sicura, tipo il tempo.

 

La crisi, e le gang, e forse un’ossessione nazionale, hanno prodotto poi o perfezionato un genius loci, quello della staccionata: una mania che si vede nel separé, nella schermatura: insomma nel cobogò – unico nome tecnico non a caso brasiliano, dai nomi degli architetti che lo perfezionarono, Coimbra, Boeckmann Góis – per la paratia che filtra la luce, usata tanto da Lucio Costa e dal suo allievo Oskar Niemeyer, come nel bellissimo Ospedale della Lagoa. A Rio ogni palazzo delle zone affluenti, Copa e Ipanema in primis, è recintato da cancelloni o cobogò però di alluminio anodizzato, di tanti colori, naturale, fumé, champagne, qui anche il vituperato materiale conosce virtuosismi mai visti, tirato a lucido riluce in inferriate, porte e finestre; ma è nel cancello tubolare che dà il meglio, con vari optional, pertugi per serrature e dodici e riconoscimenti, l’impianto per l’impronta digitale, lo spioncino tecnologico (sembrano fatti però tutti da un’unica azienda, a cui si invidia il business). I cancelli elettrici, anche con guardiania tipo Casa Bianca, allignano anche nei quartieri “bene” come Leblon e Leblon Alto, grandi Casalpalocco molto ambiti, perché a Rio oggi è come a Roma negli anni Ottanta, nel Centro non si può stare, dicono, non si può abitare, c’è l’incubo della rapina e di pestare cacche e pipì, o calpestare homeless, in havaianas (le ciabattine inventate qui in favelas e fatte di copertoni riciclati).

 

Pare un’Italia un po’ distopica: favelas e cancelli, ciabatte a rate e prodotti del territorio. Ma tutta quest’energia l’avremo mai?

Peccato perché il centro è bellissimo, con le palazzine coloniali di stile manuelino, cadenti, rosicchiate, schiacciate dai grattacieli: ci si va solo la sera, soprattutto nel quartiere di Lapa, bevendo ai vari “depositi”, ammirando i palazzetti che volendo disinvestire dall’Italia si potrebbero gentrificare subito approfittando di un cambio favorevolissimo. In Brasile, tutto è dunque invertito: il centro è periferia, e il sud è il nord; i pelandroni massimi stanno infatti nel famigerato “Nordeste”, epicentro San Salvador de Bahia; San Paolo, al sud, è invece la capitale finanziaria, la Milano brasiliana, capitale del più grosso gay pride del mondo, e di tutte le aziende (coi soliti discorsi e sospetti reciproci tipo Milano-Roma: i paulisti snobbano i carioca perennemente in costume da bagno, troppi turisti, solo borseggiatori. Mentre i carioca: ma che ci vai a fare a San Paolo, è tutto cemento).

 

E però Rio, tanto più affascinante della sua narrazione mainstream – culi, surf, samba – ha pure l’orgoglio di ex capitale: gli Orleans-Braganza-Wittelsbach, la casa imperiale del Brasile, imparentata pure con Ludwig, ci sono sempre, e vivono qui. Danno com’è giusto il loro apporto alla stampa popolare con matrimoni e fidanzamenti, e vivono degnamente in una città che è ancora gioiosissima e regale anzi imperiale seppur tra la monnezza: abbastanza lacerata dalla crisi politica ed economica, soprattutto post Olimpiadi che hanno contribuito a sfasciare le finanze.

 

Invece San Paolo ha i suoi managerini che escono da Avenida Paulista in completo grigio in una Wall Street immaginaria, e palazzi che si chiamano “Fifth Avenue”, e meno monnezza e homeless più acconci; mentre a Ipa e Copa, negozi soprattutto di ciabatte, che si vendono anche a rate, tre per trenta reais. A Rio, farmacie, tantissime, che fanno tutti i servizi, moltissime edicole per quotidiani e riviste dedicate a tutti gli aspetti della salute (prostata, dissenteria, come avere una pelle meravigliosa), libri. E tanti baracchini per succhi, dove alligna soprattutto l’açaí, una bacca disgustosa che però vive il suo momento di gloria. E’ un superfood. A Ipa, chiassosa, ventosa, stupenda, coi cavalloni, gli stabilimenti, ognuno ha il suo nome (“da Maria e Jose”, “Pedro e Famiglia”, “Sonia”), ognuno una specialità e un expertise (WiFi, Scruff, Bologna Calcio). Ci si fa dare una poltroncina tipo Sora Lella – la sdraio non esiste – si paga con l’onnipresente pos, poi appena seduti cominciano i continui commerci “sigarette-cerveza-marijuana-cocaina”, dicono venditori molto efficienti, mentre altri reggono vassoi di drink colorati, senza una meta. Qualcuno pur ne chiederà, strada facendo; e gelati e poi dei fornelletti accesi metallici in cui arrostiscono salgados. Un caos da stazione. Un’allegria. I maschi, il miglior prodotto locale, col costume da bagno carioca tipico, che non è slip e non è boxer, ma una specie di mutanda tirata dietro e floscia davanti, con ingegneria degna di un Niemeyer: e così vanno poi anche nei negozi, al ristorante, in metro, alla posta. La prostituzione è legale e la moneta plastica è incoraggiata, così anche nelle applicazioni per cuori solitari tutti accettano “cartaos”. E però nessuno, on o offline, sa l’inglese. Difficoltà anche nei negozi più turistici e nei primari musei a far intendere “pane” e “biglietto” e “sconto”. “Non capisco”, dicono gentili, costernati. L’idea di studiare le lingue non li sfiora, forse per orgoglio australe o pigrizia o mercato interno sufficiente, come in Cina o Nordamerica. In spiaggia a Ipa, nel bagliore leggendario con vista sui Dois Ermanos e i ragazzi della spiaggia e la spuma dei cavalloni, partono applausi spontanei: non a tutto questa meraviglia, né al tramonto: è quando si perde un bambino, e la mamma così sente il battimani e lo viene a recuperare.

 

Magari dalla favela: che è un tema interessantissimo, centrale, seminale nell’etica ed estetica carioca: non c’è più solo l’abominevole bidonville che cresce – milioni di indigenti stipati su in alto sui monti minacciosi. Oggi è tutto più complesso: c’è la favela e c’è la favelita, una variante più soft, e tanti dei lavoratori anche borghesi che affollano la metro da lì arrivano (ma ormai si dice “in comunità”): si paga meno d’affitto rispetto alla città, ci stanno fior di professionisti anche hipster. E’ insomma un Pigneto brasiliano. Chef di belle speranze vi aprono locali rielaborando naturalmente piatti della tradizione internazionale con le più eminenti materie prime del territorio (amazzonico); ecco che si va tutti a mangiare, nella favelita gentrificata. Qui c’è giustizia sociale spontanea, ci spiegano, chi picchia la moglie o ruba viene cacciato. Paghi affitti regolari, non c’è controllo mafioso. E si capisce che andare a mangiare in favela è il massimo chic: arrivano infatti delle signore molto di sinistra e in lungo, percorrendo i vialetti tra finestre di alluminio anodizzato e lamiere contorte e popolazioni però molto educate (e un poliziotto con mitra alla piazzola di guardia). Insalata di caprino, salmone con patata dolce, semifreddo al limone. Vituperando Bolsonaro, e mettendo però in chiaro che “non torneremmo mai in Italia, c’è troppa disuguaglianza”, dopo aver discorso di blindatura, sorseggiando una cachaca a chilometri zero. “E poi l’altra sera è passato Caetano e ha cantato solo per noi”.

 

Pare un’Italia un po’ distopica, questo Brasile: favelas e cancelli, ciabatte a rate e prodotti del territorio. Però, il solito problema: con lo sfascio, siamo competitivi. Ma tutta quest’energia l’avremo mai? Le città brasiliane “rivelano ancora un’umanità che vuole sistemarsi rapidamente, guadagnare tempo: un’umanità che lavora” diceva la nostra eroina, Lina Bo Bardi, architetta romana a Rio. Oggi è ancora così.

 

A Niteroi, cittadina portuale al di là della baia, sul cucuzzolo di un monte, l’astronave di Oskar Niemeyer – che, si scopre con raccapriccio, si era sempre pronunciato sbagliato, la pronuncia giusta è quella letterale – viene riproposta l’installazione “Riposatevi”, che il suo maestro Lucio Costa, archistar di lotta e di governo brasiliana, propose per la Triennale di Milano del 1964. Tante amache multicolori sospese su ganci ingegnosi-poetici, e chitarre e libri, per spiegare ai milanesi imbruttiti del

Tutto è invertito: il sud è il nord;
i pelandroni massimi stanno nel famigerato “Nordeste”, epicentro San Salvador de Bahia

boom che i brasiliani son quelli della pennica e della chitarrina, certo. Ma allo stesso tempo son capaci di costruire una capitale dal nulla in tre anni. Era stata appena inaugurata infatti Brasilia, la città del sogno di un paese democratico-idealista-industriale. Ma poi, per sfiga suprema, proprio nel 1964 prese il via la micidiale dittatura durata vent’anni. Costa, troppo vecchio, rimase in Brasile, mentre il giovane Niemeyer fuggì a Parigi, diventando così una celebrità (come poi tutti gli architetti in fuga dal nazismo e dal Bauhaus che finiscono a Harvard e Chicago negli anni Trenta. Bisognerà un giorno scrivere un saggio alla Barney Panofsky sul contributo involontario dei dittatori alle carriere delle più pregiate archistar). Oggi, attendendo Bolsonaro che a Brasilia giurerà martedì, con misure di sicurezza senza precedenti, il Brasile continua a vivere del suo entusiasmo sgangherato e brulicante post e forse pre-dittatura. Di sicuro, come diceva Lucio Costa, “il Brasile non ha la vocazione per la mediocrità”.