Nelle Terre d'ombra
Nel sud-est asiatico la fiction racconta la realtà meglio dei saggi. Da Bangkok a Phnom Penh attraverso il Triangolo d’oro, la regione è un bengodi per criminali e occidentali annoiati
Il tuo lavoro è dire le cose in modo corretto. Il mio di trasformarle in buone storie” disse John Le Carré a David Greenway del Washington Post quando s’incontrarono in Cambogia nel 1974 (l’episodio è narrato in “John Le Carré. The Biography”di Adam Sisman). Le Carré ha trasformato le cose in buone storie per oltre mezzo secolo. In fondo, per quanto trasformasse la realtà, forse era proprio lui a rappresentarla meglio. L’aveva vissuta nelle sue pieghe oscure da agente dell’MI6.
Per altri personaggi il racconto è stato la vita. Come quella di Jim Thompson, “il re della seta thai”. Era arrivato in Thailandia alla fine della Seconda guerra mondiale da agente dell’Office of Strategic Services, la futura Cia. Poi si era dimesso per dedicarsi agli affari, ma pare continuasse anche il suo vecchio lavoro. Col tempo, però, Thompson divenne sempre più simile a Thomas Fowler, il personaggio del romanzo di Graham Greene “Un americano Tranquillo”: più attento alle sfumature nel sorriso di un Buddha che agli intrighi.
Droga, armi, stupefacenti, riciclaggio. Sono tutti business fiorenti per il crimine organizzato nei territori e nelle città di confine
In questo intreccio di trame, a un certo punto, non distingui più il vero, il falso, il verosimile. Ti perdi “nella distanza inconciliabile” tra ciò che è definito da coordinate precise e un abbaglio. Ma qualcosa nella tua immaginazione trova conforto in quest’idea di “oltre”. Secondo la storica Maya Isanoff – lo scrive in “The Dawn Watch: Joseph Conrad in a Global World” – è ciò che rendeva Conrad una specie di profeta.
Alla fine, quando si scrive di sud-est asiatico si torna sempre a lui, Conrad. Del resto, è proprio al bar dell’hotel Oriental di Bangkok, allora l’unico buon albergo in città (ancor oggi il migliore per gli amanti degli “Hôtels Littéraires”) che il capitano H.N. Andersen, fondatore della East Asiatic Trading Company, offrì al giovane Conrad il suo primo comando, a bordo della nave Otago. Quell’esperienza iniziatica fu ispirazione di romanzi come “Il Compagno Segreto” e “La Linea d’Ombra”. Oggi è Conrad stesso il compagno segreto di tutti i suoi emulatori, un’ombra tra le tante che popolano le “Shadowlands”, le “terre d’ombra” del sud-est asiatico, come nel titolo del libro del giornalista investigativo Patrick Winn. Un’eco di quel “Cuore di tenebra” che è divenuto un archetipo nell’inconscio collettivo di chi racconta ambiguità, problematiche, inquietudini, insicurezze, irrealtà e incertezze delle terre tra l’Oceano indiano e il Mar della Cina.
“Dammi i tuoi spacciatori, i tuoi riciclatori, i tuoi criminali che cercano disperatamente di respirare liberi”. Iniziava così un articolo del New York Times di qualche anno fa, dedicato a “fuggitivi e altri” in Thailandia. Suona come una preghiera, forse perché qui sembra che tutti siano tutti posseduti dall’inconscio desiderio di voler interpretare quei ruoli.
“E poi c’è il brivido di poter scivolare in un’altra identità. E una rinascita è ciò che la gente brama. Un nuovo inizio, una iniezione di speranza. Senza dubbio molte persone vengono in Asia per mettere in atto questo miracolo… Adattarsi alla rovina e trasformarla in un tipo di felicità”, ha detto Lawrence Osborne. Giovanissimo, ha intrapreso una vita da nomade che lo ha inevitabilmente condotto a Bangkok. Quella città che lui definisce “il protocollo di una caduta” è scena e protagonista del libro, “Bangkok”, appunto, che lo ha catapultato tra gli autori di culto della nuova generazione di viaggiatori zaino in spalla alla perenne ricerca di un altrove, una spiaggia, una tribù perduta, un indovino, sesso. Come accade al protagonista del suo romanzo “Cacciatori nel buio”, un giovane insegnante inglese che subisce tutte le più fatali attrazioni della Cambogia. “Sembra che gli stranieri vengano qui apposta per morire”, dice uno dei personaggi.
“Sembra che tutti siano inseguiti da un demone o cerchino un demone che li insegua”, dice il protagonista de “La donna del Club 49”. “Nel buddismo non c’è alcun dio né comandamento, né anima immortale da salvare, né Papa o sacerdote o pastore per chiarire le istruzioni più ambigue”, spiega un personaggio di “Notturno Cambogiano”. Sono citazioni di due noir: il primo ambientato in Vietnam, nell’underword del traffico d’esseri umani; il secondo in Cambogia, tra bordelli e locali notturni. Entrambi si prestano a un gioco di composizione e sovrapposizioni tra dialoghi, trame, personaggi, considerazioni filosofiche, religiose, e geopolitiche, tra magie, orrori e decadenti raffinatezze, rifugiati, compagni di merende e morti dentro, prostitute e travestiti. E’ un rincorrersi di cliché cui non sfuggono gli stessi autori, incarnazione del perfetto espatriato. Australiani tutti e due, il primo, Patrick Holland, ha lavorato e studiato in Cina, Vietnam e Giappone. Il secondo, Philip Coggan, dopo aver ricoperto ruoli diplomatici in diversi paesi del sud-est asiatico, si è dedicato al giornalismo e per molti anni ha vissuto in Cambogia.
E’ al bar dell’hotel Oriental di Bangkok che il capitano H.N. Andersen offre al giovane Conrad il suo primo comando
Una trama che s’infittisce se riprendiamo anche il romanzo di Osborne. Non fosse che per lo scenario. Una Cambogia che in occidente, e solo là, continua a evocare le memorie dei khmer rossi, un’organizzazione che ha il copyright di una delle frasi più terribili mai pronunciate: “Se sei vicino non sei di alcuna utilità. Se sei lontano non si sente la tua mancanza”. Nel novembre scorso gli ultimi leader dei khmer rossi sopravvissuti, Nuon Chea, 92 anni, ideologo del regime e braccio destro di Pol Pot, e Khieu Samphan, 87, capo di stato dell’allora Kampuchea Democratica, sono stati condannati a vita. Dopo nove anni di attività e 300 milioni di dollari di spesa, il tribunale internazionale istituito dalle Nazioni Unite come una sorta di Norimberga cambogiana ha così concluso la sua attività. L’unico altro condannato è stato Kaing Guek Eav, alias Duch, responsabile del Tuol Sleng, il centro di tortura dei khmer rossi, dove sono state “distrutte” – komtech, questo il termine khmer che rende l’idea della loro sorte – circa 20.000 persone.
Per molti osservatori e la maggioranza dei cambogiani questa vicenda è stata la dimostrazione dell’ipocrita morale occidentale (c’è da ricordare che le Nazioni Unite continuarono a riconoscere il regime dei khmer rossi anche quando era ormai chiaro che stava mettendo in atto un genocidio). Per molti altri il lunghissimo dibattimento è stato un modo di continuare a evocare l’orrore. “Appena scesi dall’aereo i turisti mi chiedono di portarli al Tuol Sleng”, dice senza dissimulare il suo disprezzo una guida di Phnom Penh. Ecco perché la Cambogia continua a esercitare un’attrazione irresistibile per i “carrieristi che frequentano la porta girevole tra l’Onu e l’industria dei diritti umani”, come li definisce l’anticonvenzionale professor Peter Maguire, fondatore della Fainting Robin, fondazione che sostiene ricercatori, scrittori e intellettuali indipendenti i cui lavori non rientrano nel mainstream.
Oltre gli stereotipi del “Cuore di Tenebra” che non cessa di battere, tuttavia, i “noir” ambientati nel sud-est asiatico e i loro autori sfuggono al pensiero dominante. Anzi, manifestano una buona dose di anticonformismo, forse compiacendosi del cinismo che sembra dover caratterizzare ogni espatriato, ogni farang, straniero, che si rispetti. Quasi inevitabile, del resto, in paesi dove “c’è una maggiore familiarità con la morte” come dice Osborne. Non a caso un sito molto seguito nell’area si chiama “Farang Deaths”: è dedicato ai numerosi e spesso misteriosi casi di morte degli stranieri in Thailandia. Molti dei quali, tanto per inquadrare la scena, si verificano in quella che è definita la “Torre Fantasma” di Bangkok, ossia la Sathorn Unique Tower, un grattacielo che doveva diventare un condominio di lusso, ma che fu abbandonato nel 1997, al culmine della crisi delle Borse asiatiche. Molti si chiedono perché non venga demolito o completato. La risposta sussurrata è che nessuno osa metterci le mani perché è considerato maledetto, popolato da phi, spiriti, malvagi e vendicativi. Che sarebbero poi quelli di chi c’è morto.
“Sai, alla fine, questa è sempre Bangkok”, dice un italiano che ha aperto un caffè con annessa galleria d’arte in una traversa di Sukhumvit road, la strada centrale della capitale thai. Per tagliare l’albero che impediva la vista del suo locale ha dovuto chiedere alle ragazze di una sala massaggio se per caso fosse abitato da qualche Spirito.
“Cuore di tenebra” è divenuto un archetipo di chi racconta ambiguità e inquietudini delle terre tra l’Oceano indiano e il Mar della Cina
Quei libri, dunque, si limitano a caricare un po’ i toni di situazioni del genere. In compenso si possono rivelare guide di viaggio da veri insider. Chi li legge riconoscerà personaggi e luoghi. Il turista potrà scoprire locali come l’Hearth of Darkness, per gli habitué semplicemente “il cuore”, un pub discoteca al numero 26 di rue 228 di Phnom Penh o l’Apocalypse Bar al 38 di Rue Pasteur di Saigon, frequentati da ragazze in cerca di finanziamenti per le loro start-up, e dove passare per una birra o una partita a biliardo. Oppure ristoranti come il La Croisette, sul lungofiume di Phnom Phen, ritrovo di cambogiani ed espatriati di successo. Vi compaiono anche descrizioni di alberghi che riescono a definire le mutazioni antropologiche del sud-est asiatico. Come quella dell’Hotel Continental di Saigon ne “La donna del Club 49”: “Negli anni Cinquanta chiedeva una miseria per una stanza, era più elegante del Ritz e potevi incontrare chiunque nel bar della hall, da giornalisti vincitori dei premi Pulitzer e Londres a capi di stato, sino alle mogli più giovani dell’ultimo imperatore. Ora costa quattrocento dollari a notte e si incrociano solo ricchi turisti americani e francesi, oltre a nostalgici espatriati vietnamiti”. Quegli stessi libri possono anche rivelarsi utili per chi voglia fare business nell’area del sud-est asiatico, ben più dei manuali sul tema che riempiono gli scaffali delle librerie di Bangkok o Singapore. Almeno per chi è in cerca di un briciolo di fortuna. Perché i loro personaggi sono davvero il protocollo di una caduta e gli affari sono una roulette russa caricata a ricatti e corruzione. E soprattutto ci si scontra con una filosofia di vita in cui le stellari diseguaglianze sociali si superano nell’accettazione del karma, con le pillole di ya ba, le metanfetamine, o semplicemente ripetendo “mai pen rai”, “non importa”. I dialoghi di quei libri sono la trasposizione romanzata di ciò che un espatriato sente ogni giorno.
“Non avevamo soldi ma non eravamo poveri”, dice Pong, la proprietaria di un ristorante, ricordando la sua vita in campagna e confrontandola con quella in città la sera della cremazione del marito, facendo i conti dell’attività. “Oggi è giorno di paga e il guardiano del bar sparisce. Lo rivedrò domani, forse, strafatto di ya ba”, dice il proprietario di quel bar di Bangkok.
In questa giungla degli specchi, a poco a poco, gli stereotipi divengono realtà. Le ombre si materializzano. Eccole le terre d’ombra, quelle raccontate in “Hello, Shadowlands: Inside the Meth Fiefdoms, Rebel Hideouts and Bomb-Scarred Party Towns of Southeast Asia”. L’autore, Patrick Winn, si definisce un non-fiction storyteller, un narratore di storie vere, sul crimine organizzato nel sud-est asiatico (oltre che sulla pop-culture, in un mix non così improbabile). In questo libro inchiesta analizza le economie criminali – traffico di droga, armi, stupefacenti, riciclaggio – nei territori e nelle città di confine. Secondo Winn fioriscono in assenza di forti istituzioni nazionali, ma anche per la complicità delle autorità locali. Un network che viene ancor più rafforzato dal crescente autoritarismo cinese e dal declino dell’influenza statunitense. Miscela tossica che si rivela “una benedizione per il crimine organizzato”.
In forma meno pittoresca è un po’ la tesi esposta da Paul Chambers e Napisa Waitoolkiat, accademici che hanno focalizzato i loro studi sulla politica dell’area, in “Khaki Capital: The Political Economy of the Military in Southeast Asia”. Secondo gli autori sarà molto difficile che i militari rinuncino al loro ruolo in un’economia predatoria. Il Capitale in mimetica è “una forma di creazione del reddito in base a cui i militari, quali depositari della violenza legittimati dalla stato, stabiliscono una forma di produzione che gli consente di influenzare i bilanci statali per ottenere allocazioni finanziarie aperte o nascoste, per estrarre, trasferire e distribuire risorse finanziarie e per creare opportunità finanziarie o di carriera”.
Il costo delle armi è più basso nel sud delle Filippine rispetto all’Indonesia. La Malaysia offre condizioni migliori per fuggire
A poco a poco le “Shadowlands” assumono contorni meno sfumati e romanzeschi. Emerge l’immagine latente di un network transnazionale. I gruppi del crimine organizzato stanno espandendo e diversificando la produzione di droga nel Triangolo d’Oro, la zona compresa all’incrocio dei confini tra Laos, Birmania e Thailandia, un tempo nota per la produzione di oppio e oggi sempre più di stupefacenti di sintesi come le metamfetamine o l’oppioide Fentanyl, cento volte più potente della morfina. Al tempo stesso, mentre prima era lo snodo del traffico, adesso le rotte si stanno ramificando e puntano a sud, tra le isole del Golfo di Thailandia.
Il traffico di esseri umani, per quanto registri un calo, è sempre più difficile da controllare, mimetizzandosi tra le maglie di migranti, lavoratori impiegati nei pescherecci o nelle fabbriche in outsourcing costruite sulle frontiere, gruppi etnici in fuga. Ancor più complessi i traffici del terrorismo transnazionale, che sfrutta le diverse condizioni di mercato tra i paesi. Il costo delle armi, per esempio, è più basso nel sud delle Filippine rispetto all’Indonesia, mentre la Malaysia offre condizioni migliori per gli spostamenti esteri. Le stesse rotte nell’immenso arcipelago tra lo Stretto di Malacca, il Borneo e il Mar cinese meridionale, un tempo controllate dai pirati e oggi seguite dagli jiadisti, sono quelle in cui molti mercantili cambiano nome e bandiera per trasportare in Corea del nord le merci sottoposte a embargo e imbarcare droga o altre commodity illegali che forniscono denaro extra al regime.
Osservando meglio la tela di ragno sulle “Shadowlands”, infine, si potrà osservare che porti, hot-spot, casinò, rotte terrestri e marittime molto spesso si sovrappongono ai progetti della Obor, la “One Belt One Road” concepita dal governo di Pechino come un immenso network di Vie della seta esteso dal Pacifico all’Atlantico.
Gettare uno sguardo sulle “Shadowlands”, quindi, serve a comprendere quali potrebbero essere gli sviluppi gli intrecci futuri. E così, come guidati da un pensiero magico, si torna a Conrad. Scrive Maya Isanoff in “The Dawn Watch: Joseph Conrad in a Global World”: “La penna di Conrad era come una bacchetta magica, evocando gli spiriti del futuro”.