Perché per il dittatore bielorusso oggi Mosca non è più una sorella
Lukashenko teme la dipendenza dalla Russia e invita gli ucraini a riprendersi la Crimea
Roma. Il conflitto tra Russia e Ucraina non poteva rimanere limitato, piccolo, chiuso all’interno di quei confini friabili e tormentati che delimitano il territorio di Kiev. Quel conflitto sta raggiungendo anche le nazioni vicine, pronte a schierarsi, anche soltanto con una dichiarazione, al fianco dell’Ucraina. E se a prendere posizioni è il presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, per Mosca è come perdere un pilastro. Russia e Bielorussia sono alleati tradizionali, ma già nel 2014 i rapporti stavano cambiando: a Minsk, la sua dipendenza da Mosca, che un tempo voleva dire protezione, ora fa paura.
Lukashenko aveva già condannato l’annessione della Crimea da parte della Russia, aveva descritto l’episodio come un “precedente cattivo”, aveva deciso di recarsi a Kiev il giorno in cui si celebrava l’insediamento di Petro Poroshenko, il presidente ucraino, ormai giunto a fine mandato, che avrebbe dovuto traghettare Kiev dalla rivoluzione di Euromaidan verso una maggiore integrazione con Bruxelles. Lukashenko era lì, in prima fila seduto vicino a tutti i più grandi sostenitori della lotta antirussa, uscito dalla stanza del giuramento, è andato incontro ai microfono dei giornalisti per dire agli ucraini di andarsi a riprendere la Crimea.
Qualche giorno dopo però volò ad Astana per firmare con Vladimir Putin l’accordo sull’Unione economica euroasiatica. Era il 2014 e il Cremlino lasciò correre queste dichiarazioni a favore di Kiev, e preferì pensare che la dittatura più longeva dell’Europa orientale avesse in realtà paura che Euromaidan arrivasse fino a Minsk. Ma non è più il contagio di una rivoluzione europeista quello che teme il presidente bielorusso, o non soltanto, le sue dichiarazioni contro l’atteggiamento russo continuano, e contemporaneamente continuano anche gli affari con Mosca. Il contagio è un altro e ha a che fare con la paura di Lukashenko di ritrovarsi le rivendicazioni di Putin alle porte.
Era sempre il 2014 quando in un’intervista il presidente bielorusso disse che se la Russia decidesse di occupare la Bielorussia, si scontrerebbe con il rifiuto dei suoi stessi soldati, “un russo non punterebbe mai la pistola contro un bielorusso, siamo la regione più russofila della grande madrepatria”. Questa dichiarazione, rilasciata all’emittente televisiva Dozhd, apriva una serie infinita di interrogativi. Erano frasi da equilibrista con cui Lukashenko lasciava intendere che la Bielorussia si sentisse già parte della Russia e dissuadeva Putin dal tentare un’offensiva contro Minsk, perché sarebbe stato come puntare la pistola contro un fratello. Quattro anni fa, senza che ce ne accorgessimo, tutto quello che stava accadendo a oriente dei confini europei stava cambiando, tutti i sentimenti sotterrati negli anni Novanta stavano riemergendo e la famosa fratellanza si trasformava in una lontana parentela anche un po’ sgradita.
Così, lunedì 24 dicembre, qualche ora prima dell’incontro di fine anno con Vladimir Putin, Lukashenko ha detto che non può più parlare della Russia come di uno “stato fratello”. Da Mosca si sono affrettati a fargli sapere che anche il Cremlino non crede più in Minsk come un tempo, che non si fida più delle sue dogane che hanno permesso l’ingresso di derrate alimentari europee e hanno cercato di esportare benzina e altri derivati del petrolio facendoli passare per solventi, aggirando in questo modo i dazi russi. L’incontro, previsto per il 25, stava per saltare, ma alla fine Putin e Lukashenko si sono visti, il presidente bielorusso ha incitato Putin a non rivangare “vecchi dissapori ”, senza specificare se si riferisse alle sue dichiarazioni del giorno precedente, e Putin ha concluso l’incontro dicendo che, “dopo tutto”, i due leader si vedono sempre volentieri.
L’attesa dello scontro in Ucraina
Lukashenko teme i russi, ostenta di volersi dissociare dalle azioni di Mosca in Ucraina, ma di fronte a Putin non è in grado di far valere le sue convinzioni, è un equilibrista, ma il filo diplomatico sul quale cammina è sempre più teso, rischia di rompersi e di costringere Lukashenko a decidere a quale dei tre mondi che lo circondano vuole appartenere: la Russia a est, l’Ucraina a sud e poi l’Europa. Gli eventi a oriente accadono in fretta, nessuno ha voglia di arrivare allo scontro, ma nessuno ha voglia di farsi cogliere impreparato. Il presidente ucraino Petro Poroshenko ieri ha annunciato la fine della legge marziale, imposta un mese fa nelle zone orientali del paese dopo il sequestro delle tre navi militari da parte della Russia nello stretto di Kerch.
La Russia ha emanato nuove sanzioni contro Kiev, facendo aumentare a 567 il numero delle persone fisiche nella lista dei sanzionati e a 75 quello delle società. L’Ucraina ha risposto accusando alcuni governi europei, incluso quello italiano, di miopia nei confronti del conflitto tra Kiev e Mosca che lo scorso fine settimana ha deciso di far atterrare in Crimea, nella base di Bel’bek, più di dieci caccia. Alexander Lukashenko osserva, aspetta, sperando che il momento della scelta, nonostante il contagio, non arrivi mai.